Ha scritto Piero Ostellino, sul “Corriere della sera” (29.10.2014), che quanto sta facendo Matteo Renzi nel Pd non va nel senso della modernizzazione della sinistra, né del sindacato, ma è addirittura il suo contrario. Cioè a dire un tentativo di scomposizione degli apparati al fine di determinare un potere autocratico che non ammette discussioni, confronti, dialettiche, dinamiche.
Il renzismo è, insomma (e non soltanto per Ostellino), un atteggiamento politico orientato a “personalizzare” il partito non diversamente da quanto ha fatto Berlusconi, con una differenza: mentre il leader di Forza Italia ha costruito dal niente il “suo” soggetto politico chiamando a raccolta chi ne condivideva lo spirito e gli orientamenti, il segretario-premier ha ereditato il Pd e lo ha smontato fino a snaturarne la struttura organizzativa e cancellarne la sia pur fragile “ideologia”. Questa, per quanto confusa e contraddittoria, era andata configurandosi comunque come l’ibridazione delle culture cattolico-progressista e post-comunista (diciamo pure socialdemocratica in salsa rossa) che avrebbe potuto, se maneggiata con accortezza, produrre un “amalgama” sul quale fondare un partito realmente nuovo.
L’iconoclastia renziana non ha lasciato spazio – anche per la povertà dei competitori interni e della stanchezza mostrata dai vecchi oligarchi del Pd – alla costruzione di un autentico partito di sinistra, ma ne ha allontanato la prospettiva proponendo l’idea che l’uomo solo al comando, libero da lacci e pregiudizi culturali e politici, potesse governare in piena libertà ed autonomia, prescindendo da chiunque, perfino dalla stessa storia del partito del quale è a capo. Dalle scelte dei membri della segreteria e del governo compiute da Renzi si capisce fin troppo bene dove voglia andare a parare e si potrebbe concludere che l’autocrazia a cui si è votato è un problema soltanto suo e del suo partito e chiudere qui ogni discorso.
Ma non è così. Ancorché non eletto, come i suoi predecessori Monti e Letta, e dunque privo di investitura popolare, Renzi si comporta da capo di una oligarchia partitica messa insieme da lui stesso, grazie alla dabbenaggine di chi sostanzialmente lo ha assecondato per insipienza o impresentabilità, senza porsi altro scopo se non quello di durare spazzando via tutti coloro che sia pur timidamente gli si oppongono. In questa operazione non segue nessun criterio politico-culturale: per lui va bene tutto purché non interferisca con i suoi progetti. E a questo punto entra in gioco la preoccupazione della comunità nazionale (trascendendo quindi i casi del Pd dei quali poco nulla può importare a chi in esso non si riconosce) i cui destini sono strettamente legati a chi la governa.
Può un presidente del Consiglio nascondere (posto che le abbia) le sue idee su come raddrizzare l’economia a parte le indicazioni – chiamiamole così – delle istituzioni europee, sullo sviluppo della società italiana, sulle riforme istituzionali e civili? Evidentemente no, a meno che non decida di vivere alla giornata assecondando l’occasionalismo politico regolandosi come gli suggerisce l’istinto. Naturalmente il “personalismo” ha controindicazioni facilmente riscontrabili e non è escluso che si ritorca contro chi lo adotta ingenerando però ulteriore incertezza ed instabilità nel Paese.
Renzi, svincolato da qualsivoglia impegno politico-culturale, abilmente attestatosi sulla tolda di comando di un non-partito (perché questo è diventato il Pd), si accinge a superare qualsiasi forma di intermediazione tra lui ed il popolo ricorrendo perfino all’ambizione di costruire un “partito della nazione” che non è, come qualcuno potrebbe pensare, il partito del bene comune e dell’interesse comunitario, bensì il partito che assorbe le minoranze fino a renderle ininfluenti per assemblarle nel calderone personalistico dal quale deve programmaticamente emergere soltanto la visione pragmatica del leader.
Renzi è il sintomo evidente di una delle molte patologie che affliggono le democrazie occidentali. Ed il suo decisionismo di cartapesta, al punto da non riuscire a trovare le intese per eleggere due giudici della Corte costituzionale, è rivelatore della miseria di una politica irriconoscibile, nelle cui viscere i ruoli si sono perduti e le ambizioni annegano in una pratica del potere liquida.