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Vi racconto un paio di pazzie sul caso Eternit

Sulla vicenda dell’Eternit vi sono aspetti che meritano di essere chiariti anche correndo il rischio (sarebbe meglio parlare di certezza) dell’impopolarità. Sono aspetti di civiltà giuridica (gli stessi che sono presenti nella vertenza Ilva e in tanti altri casi) che distinguono e separano nettamente una concezione moderna del diritto penale (almeno da Cesare Beccaria in poi) dalla c.d. legge del taglione, dalla vendetta, della giustizia sommaria.

Bene ha fatto, ieri, il Garantista – per mano del suo direttore – a chiarire che la prescrizione non è una via di fuga per i criminali, ma un istituto rivolto a dare certezza del diritto – con l’estinzione del reato in conseguenza del trascorrere del tempo – al cittadino coinvolto in una controversia giudiziaria (sia essa penale che civile) il quale, fino ad una sentenza passata in giudicato, gode di una presunzione di innocenza. Del resto, come ha lasciato intendere la Suprema Corte di Cassazione, a determinare i tempi della prescrizione hanno contribuito, nel processo Eternit, anche le imputazioni che ne sono state la base. Dai noi, nell’attuale ‘’tempo degli Unni’’, è diventata sufficiente una ben orchestrata campagna di stampa (in cui non sia rappresentata chiaramente la differenza tra comportamenti discutibili e fattispecie di reato) per decretare la colpevolezza di una persona e la sua morte civile, a seguito di una vera e propria presunzione di colpevolezza.

Ma veniamo alla questione Eternit e ai tanti casi che evocano la complessità del rapporto tra uomo e ambiente. Da quando è stato cacciato dal Paradiso Terrestre, dove si nutriva dei prodotti della terra e passava il tempo osservandosi l’ombelico, l’essere umano si guadagna da vivere con il sudore della fronte. Ai tempi dei nostri nonni e bisnonni si moriva di fame, di pellagra, di malaria, magari di influenza (ricordate la c.d. Spagnola che seminò milioni di vittime nel mondo?) ad un’età in cui, oggi, i giovani si chiedono se è venuto il momento di lasciare la casa paterna. Adesso, anche le patologie sono differenti. Ma, allora come oggi, permane un saldo rapporto tra l’essere umano e l’ambiente in cui vive.

Nelle economie moderne vengono stabilite, magari in modo inadeguato e tardivo, delle regole allo scopo di conciliare i processi produttivi – specie se particolarmente inquinanti – con la difesa della salute delle persone e della salvaguardia del territorio. Nell’Europa del grande mercato interno sono stati stabiliti persino standard comuni, che , se solo si pensa che, nell’epoca della globalizzazione, anche i vincoli posti a tutela della salute e a difesa dell’ambiente finiscono per far parte dei problemi di competitività. Insomma, quale deve essere la linea di condotta corretta per un’impresa: applicare di volta in volta gli standard vigenti (necessariamente mediati con le esigenze produttive, con l’ammortamento degli investimenti e con gli assetti in atto nei paesi concorrenti) oppure sottoporsi a giudizi discrezionali, diversi caso per caso, senza avere nessuna sicurezza o stabilità dei costi? Quale è, in sostanza, l’interrogativo di quanti sono chiamati a ‘’fare giustizia’’ nel caso Eternit (con il suo valore emblematico in altre vertenze)?

L’azienda deve rispondere per aver violato le disposizioni di volta in volta vigenti in materia di informazione, formazione, prevenzione e salvaguardia della sicurezza e dell’integrità fisica dei lavoratori (al più alto livello della tecnologia conosciuta come sancisce l’art. 2087 del codice civile? Oppure – come risulta dalle campagne mediatiche condotte con la solita superficialità della comunicazione televisiva – è da ritenersi colpevole per il solo fatto di aver prodotto, lavorato e commercializzato l’amianto? E’ vero: l’amianto è stato (e rimane) un killer spaventoso. Ma l’Eternit lo produceva perché quel materiale aveva un mercato e veniva impiegato in molte attività. Addirittura il suo uso era richiesto nei capitolati d’appalto. Le città sono imbottite d’amianto, così le vecchie carrozze ferroviarie, il naviglio, i capannoni industriali e quant’altro. Il Parlamento ne vietò la lavorazione e l’impiego solo nel 1992. L’accanimento, mediatico e giudiziario, contro l’Eternit, dunque, non ha senso.

Quanto meno, di quelle morti, è corresponsabile lo Stato italiano che ha tardato decenni a mettere al bando la lavorazione dell’amianto? Che cosa avrebbe dovuto fare il proprietario svizzero dell’Eternit quando le riviste scientifiche cominciarono a mettere l’asbestosi e il mesotelioma in relazione con l’amianto? Chiudere la fabbrica e lasciare che l’amianto lo producessero e lo vendessero i concorrenti? Nessuno a suo tempo lo chiese.

Il modello di sviluppo della società industriale ha assicurato all’umanità notevoli progressi nelle condizioni di lavoro e di vita, ma non l’ha messa al riparo dai rischi. Qualunque studente di diritto del lavoro sa che, per quanto riguarda la materia degli infortuni e delle malattie professionali, la sola presenza di macchinari semoventi negli opifici è un presupposto di pericolosità dell’ambiente di lavoro. E’ certamente grave che tante persone, esposte alle fibre d’amianto, abbiano contratto malattie incurabili. Ma sono molte di più quelle che tutti gli anni muoiono per patologie connesse al fumo o al consumo di alcol o all’inquinamento atmosferico, prodotto dalla circolazione degli autoveicoli, o agli incidenti stradali. Facciamo attenzione.

La logica che ha condotto i pm del caso Eternit (al pari della procura tarantina per l’Ilva) è la stessa che, domani, potrebbe portare un loro zelante collega, in cerca di fama, a constatare che nella sua giurisdizione le autovetture rilasciano molte polveri sottili e che magari vi è stato un incremento delle patologie cancerogene; e ad emanare, di conseguenza, un provvedimento di sequestro della Fiat e di tutte le auto circolanti, come corpi del reato.

Proprio il caso dell’industria dell’automobile è propedeutico per comprendere come, nel mondo, il rapporto tra produzione e salute sia mediato attraverso gli aspetti economici, i progressi tecnologici e la loro inclusione nei processi produttivi. L’auto di oggi è molto più sicura di quella di vent’anni fa. Ma i nuovi standard sono stati introdotti in un contesto normativo coordinato a livello Ue e in un quadro di compatibilità economica e produttiva. Nessun giudice si è mai sognato di prendere di mira una sola azienda imponendole di introdurre, nei suoi modelli, gli standard più avanzati della tecnologia e della sicurezza.

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