Per quante modifiche e riscritture abbia subito il Jobs act Poletti 2.0 (come, del resto, il decreto sul lavoro a termine e l’apprendistato) è destinato a fare a pugni con il diritto.
Sicuramente con il diritto costituzionale, dal momento che la gran parte delle norme di delega che vi sono contenute presentano vistose carenze per quanto riguarda l’indicazione dei principi direttivi, dei criteri e degli oggetti come stabilito dall’articolo 76 della Costituzione.
Ma anche con il diritto del lavoro. E’ una sorta di maledizione di cui il provvedimento non è mai riuscito a liberarsi e che ha trascinato con sé, nella medesima imprecisione e nello stesso pressappochismo, fior di giuristi che pur hanno preso parte alla sua definizione (magari in misura inferiore rispetto alle medaglie che si appuntano sul petto).
Limitiamoci a considerare l’esito finale di un labor limae legislativo tanto disinvolto e grossolano. Ecco, allora, l’emendamento a prima firma Gnecchi ‘’riformulato’’ dal Governo e approvato in Commissione Lavoro. Leggiamolo insieme: ‘’Escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento’’.
Precisiamo che l’emendamento – consistente in una sequela di gerundi – si collega, separato da una virgola, a quella dozzina di parole che – con la pretesa di essere scolpite nel bronzo della storia – dovrebbero segnare una svolta nel diritto del lavoro e cioè: ‘’Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio’’. Lì si attacca, di seguito, il (primo della serie) gerundio presente del verbo escludere, con l’intento di affermare che nel caso di licenziamento economico… non c’è trippa per gatti: il lavoratore dovrà accontentarsi di un indennizzo e non pretendere la reintegra.
Bene: il fatto è che i nostri legislatori della domenica (non è una battuta, perché la Commissione Lavoro è stata convocata a partire da domenica scorsa) si sono dimenticati di aggiungere, dopo le parole ‘’licenziamenti economici’’, l’aggettivo ‘’ingiustificati’’ (come è scritto più avanti dopo le parole ‘’licenziamento disciplinare’’).
Così, se qualcuno volesse sottilizzare potrebbe sostenere che per tutti i recessi per giustificato motivo oggettivo – siano essi legittimi o no – è dovuta una penale di carattere economico. Si dirà: ma Matteo Renzi non ha scritto così nelle slides!
D’accordo, nel regime a cui aspira il ‘’giovin signore’’ fiorentino le norme si interpretano con le slides. Ma un altro interrogativo viene posto dalla scorribanda dei gerundi. Siamo sempre lì, al famoso responso della Sibilla cumana al soldato in procinto di partire per la guerra: ibis redibis non moriebis in bello. Dove si attaccava quel non?
Torniamo, dunque, alla prosa dell’on. Maria Luisa Gnecchi. Per essere sicuri che il ‘’prevedendo un indennizzo economico’’ si riferisce ai licenziamenti economici, non andava messa una virgola ma una banale congiunzione ‘’e’’; altrimenti viene fatto di interpretare che tutto il marchingegno dell’indennizzo economico vada a ricadere sulla seconda parte dell’emendamento unita alla prima, appunto, da una congiunzione.
Ma queste sono sottigliezze, quisquiglie, ragionamenti da legulei: loro sono in campo per #cambiareverso all’Italia, non per badare alla punteggiatura. Incassiamo la replica, limitandoci a far notare che la questione dei ‘’termini certi per l’impugnazione del licenziamento’’ dovrebbe essere già stata risolta dalla legge n.183 del 2010, uno dei pezzi forti della politica del ministro Maurizio Sacconi.
Veniamo, in conclusione, al capolavoro dell’emendamento, dove alle forze di maggioranza è riuscito il classico ‘’rovesciamento della prassi’’. Se ci mettessimo a spulciare i contratti collettivi (nel caso del pubblico impiego esiste persino una norma di legge) troveremmo che, nel capitolo delle sanzioni disciplinari, sono indicati (anzi ‘’tipizzati’’) taluni comportamenti del lavoratore sanzionabili con il licenziamento disciplinare (ovvero per giustificato motivo soggettivo).
La casistica indicata nell’emendamento è completamente invertita: il decreto delegato indicherà ‘’specifiche fattispecie’’ di recesso che, risultando insussistenti, daranno luogo a reintegra. Un bel rebus. A tale proposito si è persino scritto, nei giorni scorsi, che, nel caso di licenziamento disciplinare, la reintegra dovrebbe essere contemplata nelle ‘’specifiche fattispecie’’ in cui il datore avesse accusato il lavoratore non solo di una grave mancanza, ma addirittura di un reato (furto, danneggiamento, ecc.): accusa risultata, poi, insussistente.
Ma a chi spetterebbe di accertare se un reato è stato commesso o meno? Non già al giudice del lavoro, ma a quello penale. Così, per chiudere la vertenza del licenziamento si dovrebbe aspettare che la sentenza penale sia passata in giudicato. La soluzione era a portata di mano, a stare alle voci ‘’dal sen fuggite’’, riguardanti il lavoro di una commissione ristretta incaricata di anticipare la stesura dei decreti. Si trattava di riconoscere al datore – soccombente in giudizio a seguito di un licenziamento disciplinare giudicato illegittimo e sanzionato con la reintegra – la facoltà di optare, in via alternativa e sostitutiva, per il versamento di una indennità risarcitoria da stabilire sulla base di parametri certi e predeterminati e sottratti, quindi, alla discrezionalità del giudice.
Il nuovo testo, invece, resta ambiguo e consegna ai giudici una grande discrezionalità nel valutare la legittimità o meno del licenziamento disciplinare: la tipologia cruciale, che costituisce il ‘’cuore’’ del problema del recesso.