La partita per l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica è alle porte. E si preannuncia più che mai ricca di incognite. Un elemento è fuori discussione: l’impronta profonda che Giorgio Napolitano ha lasciato sull’istituzione più alta dello Stato nei nove anni trascorsi al Quirinale.
Per capirne i tratti peculiari Formiche.net ha sentito Vincenzo Lippolis, professore di Diritto costituzionale comparato all’Università degli Studi internazionali di Roma e recente autore di un libro scritto con Giulio Salerno per il Mulino, “La Repubblica del Presidente”.
Qual è stata la caratteristica distintiva della presidenza di Napolitano?
La dimostrazione del ruolo centrale del capo dello Stato nell’assetto istituzionale italiano. E della validità dell’estensione dei suoi poteri di intervento, previsti dalla Costituzione e utilizzati in maniera più ampia rispetto all’idea di pura garanzia notarile. Napolitano ha messo in luce che il Presidente della Repubblica è immerso nel terreno politico. E agisce nella politica nel segno dell’unità nazionale, non in chiave partigiana.
La realtà partitica ha avvertito la nuova dimensione conferita alla Presidenza della Repubblica?
Alcune forze l’hanno recepita come elemento di tutela del sistema politico-istituzionale. Altre si sono ritenute danneggiate dall’interventismo di Napolitano. A partire da Forza Italia, che riguardo la vicenda della formazione del governo guidato da Mario Monti parla di “congiura contro Silvio Berlusconi”.
Il capo dello Stato dimissionario non è dunque paragonabile a un presidente come Luigi Einaudi?
Ogni inquilino del Colle esercita il proprio ruolo non nel vuoto assoluto, ma in relazione a un contesto politico. Se tale cornice è costituita da partiti solidi che conducono un indirizzo e alleanze di governo ben precise, il capo dello Stato tende ad arretrare anziché a essere sul proscenio. Napolitano invece si è trovato a rivestire la carica presidenziale in una fase di grande frammentazione delle forze politiche e disorientamento dell’Italia sul piano internazionale. È stato costretto a supplire a tale carenza.
Come nell’esperienza dell’esecutivo Monti?
Certo. Una stagione scaturita dalla crisi e spaccatura delle formazioni parlamentari. Se il governo Berlusconi fosse stato in grado di restare in carica e portare avanti la propria politica, non vi sarebbe stata la necessità di un ricambio a Palazzo Chigi. Il capo dello Stato fece ricorso all’economista della Bocconi perché la compagine guidata dal leader di Forza Italia non godeva più di una robusta maggioranza nelle Camere. E aveva mostrato fratture interne con la fuoriuscita di Gianfranco Fini dal Popolo della Libertà. Ricordo peraltro un elemento rilevante.
Quale?
Nel dicembre 2010 Napolitano fece posporre all’approvazione della Legge di stabilità la data di discussione e votazione della mozione di sfiducia al governo Berlusconi. Mozione presentata da Fini con i transfughi di maggioranza e l’intera opposizione. Ciò consentì all’allora Presidente del Consiglio di acquisire nuovi appoggi parlamentari nell’arco di un paio di settimane. L’anno seguente lo sfaldamento della maggioranza era eloquente, e il Capo dello Stato fu costretto a intervenire. Promuovendo la creazione dell’esecutivo Monti, che ottenne la fiducia.
Nella “staffetta a Palazzo Chigi” tra Enrico Letta e Matteo Renzi che ruolo ha avuto Napolitano?
In tal caso si è verificata una situazione opposta rispetto alla vicenda Berlusconi-Monti. Perché il Partito democratico, cuore e parte preponderante della maggioranza parlamentare, ha deciso di cambiare premier. Napolitano ha registrato la scelta del Pd, e non è intervenuto all’interno di vicende partitiche. Un’operato improntato alla piena correttezza costituzionale, e coerente con il regime di governo parlamentare in cui viviamo.
Può tracciare i contorni del futuro Presidente?
È difficile farlo. Non so se l’elezione del nuovo Capo dello Stato verrà determinata da fattori contingenti. Ma il collegamento tra Quirinale e formula politica di governo prevalente vi è sempre stato. Si può citare come esempio Giuseppe Saragat, garante dell’affermarsi del centro-sinistra nella prima Repubblica. Certo, il futuro Presidente terrà presente l’esperienza di Giorgio Napolitano e sarà consapevole dell’allargamento del ruolo della più alta carica repubblicana.
Le forze parlamentari troveranno un’ampia convergenza su una figura autorevole?
Non lo so. Ma ritengo opportuno che la loro scelta ricada su una persona dotata dell’esperienza politica richiesta dall’esercizio della funzione presidenziale. Requisito necessario per fronteggiare fasi di crisi di un sistema che ancora non si è stabilizzato. Le riforme istituzionali ed elettorali sono tuttora in corso, e il loro cammino può riservare sorprese e incognite.
Nella partita per il Colle tornerà in auge la regola non scritta della rigida alternanza tra un laico e un cattolico?
Alla luce dei mandati consecutivi di Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano seguiti ai settennati di Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro, non parlerei di tacita alternanza tra un presidente laico e un cattolico. Non mi pare si possa ricavare alcuna “norma non scritta” in base all’esperienza. Tuttavia è giusto che le due grandi tradizioni politico-culturali della storia italiana trovino adeguata rappresentanza al Quirinale.