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Renzi stordisce un centrodestra spappolato

Sinistra unita e centrodestra diviso: questo è stato decretato dal quarto scrutinio che ha portato all’elezione con una maggioranza enorme di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica.

Abbiamo assistito al capolavoro politico di Matteo Renzi, il quale ha raccolto, in pochi giorni, attorno alla sua figura l’unità di tutto il Pd e di tutta la sinistra, mettendo alle corde l’intero centrodestra, sia quello di governo, il Ncd, sia quello di opposizione, Forza Italia.

I 665 voti che hanno incoronato Mattarella sono certamente un successo per l’Italia, che, comunque siano andate le cose, propone all’Europa e al mondo intero una figura umana di alto profilo, indiscutibilmente qualificata e con una radice politica interna alla storia culturale del cattolicesimo democratico.

Questo risultato, però, ha manifestato all’opinione pubblica l’enorme crisi politica del centrodestra, un’area moderata che ha pagato il prezzo delle sue divisioni interne e della mancanza reale di un’autentica efficacia negoziale. Mentre Renzi ha colpito deciso e in modo chiaro e compatto, Berlusconi e Alfano sono arrivati frammentati in interessi generali contrapposti e con una bassissima capacità di utilizzare in modo sensibile il numero di grandi elettori di cui disponevano.

La reazione prima unitaria, non partecipare al voto, poi duale, votare Mattarella e consegnare scheda bianca, è l’esemplificazione piena di un imbarazzo, di un’incertezza concreta, il quale, ovviamente, non esaurisce né il ragionamento da farsi nel presente, né, tanto meno, le valutazioni che dovranno essere fatte nel futuro.

In primo luogo, viene di domandarsi: perché l’area popolare non ha lanciato una propria candidatura il mattino del giovedì, prima che Renzi presentasse al Pd l’approvazione unanime di Mattarella? E perché non aver concordato con Forza Italia un piano B per una candidatura allargata da contrapporre a Mattarella, una volta preso atto che Renzi aveva creato la terza maggioranza per eleggere il capo dello Stato?

Queste domande, insieme a molte altre, dovranno essere poste e in modo assillante a partire da lunedì mattina. Anche perché la presentazione da parte dei democratici di un personaggio eminente della sinistra Dc avrebbe bruciato unicamente una candidatura laica come quella di Amato, ma non necessariamente quella di un altro democristiano moderato che avrebbe potuto essere messo in pista, sia pure alla fine in modo perdente.

Il Partito Popolare, erede di una parte consistente della Dc, ebbe all’inizio degli anni Novanta una grande diaspora che spinse Buttiglione ad andare con Berlusconi e Casini, mentre Bianco e Colombo ad avviarsi verso quel progetto che dall’Ulivo passa nel Pd e arriva fino a Mattarella presidente.

Perché non vi è stata la capacità di mettere in campo, ad esempio, Pier Ferdinando Casini o eventualmente un’altra importante figura di esperienza espressione di quel tornante cattolico che creò allora le basi per l’attuale centrodestra?

È inutile rimproverare ad Alfano, quando ormai i conti erano fatti, di sottomettersi alla candidatura renziana, essendo al governo, quando ci si è messi in una condizione di scacco matto ben prima di allora, nelle ore che hanno preparato e permesso il lancio del nuovo presidente. Oltretutto la scelta dei forzisti di votare scheda bianca è stata incomprensibile, evidenziando l’assoluta mancanza di una reale alternativa in mano, con la connessa ammissione di un’insufficienza programmatica, strategica e tattica. Ciò detto, tralasciando di parlare della candidatura movimentista e fine a se stessa del grande Vittorio Feltri, veramente insensata per una destra, quella di Salvini, emergente nei consensi e con la pretesa di essere un giorno forza di governo.

Quello che resta di queste giornate importanti è, in definitiva, un quadro molto chiaro e razionalizzato della politica italiana, con un buon presidente neoeletto, la conferma dell’intelligenza di Matteo Renzi e lo smarrimento grave di tutta l’opposizione.

Nel centrodestra adesso deve aprirsi necessariamente una partita diversa, nuova, totalmente altra rispetto al passato. Se la non-sinistra in Italia è costituita, alla fine, da tre frammenti, schematizzati nel no creativo, nel no passivo e nel sì accondiscendente al binomio Mattarella – Renzi, ecco che gli elettori moderati si attendono una resa dei conti e una riorganizzazione complessiva, programmatica e ideale, dell’area popolare, tanto radicale quanto è stato palese il fallimento quirinalizio.

Che le dimissioni di Saltamartini e Sacconi siano, perciò, una prima avvisaglia di un’intensa discussione, che chiami in causa tutte le forze moderate a preparare il proprio futuro politico e non solo quello personale.

Il Pd è diventata una forza socialista europea, mentre in Italia ancora non c’è nulla che somigli ad una corrispettiva evoluzione moderna delle forze popolari.

In sostanza la sinistra è unita e moderna, mentre il centrodestra resta fossilizzato e diviso da antiche lacerazioni senza alcuna prospettiva. Speriamo che un ottimo presidente e uno schiaffo sonoro possano risvegliare perlomeno l’orgoglio di essere moderati e la coscienza di poter rappresentare, insieme a Renzi ma in competizione con lui, la maggioranza moderata dei cittadini italiani che continua ad attendere una rappresentanza politica che chiaramente non c’è.


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