La situazione politica del centrodestra, dopo l’elezione del presidente della Repubblica, si presenta più chiara ma molto meno ordinata di prima.
Volendo scomodare l’etimologia, non si dovrebbe parlare di caos, come molti giornali hanno fatto in questi giorni, ma di anarchia. La differenza è sottile ma non insignificante. Le divisioni interne presenti non sono, infatti, irrazionali ma prive di un ragionamento esteso, di una valutazione compassata, che vada oltre la mera transitorietà d’interessi individualisti, di opportunismi e paure di perdere status e privilegi.
Il Ncd, ad esempio, ha un serio imbarazzo a spiegare perché, in questo quadro politico mutato radicalmente rispetto al 2013, continui imperturbabile a restare alleato di Renzi. Mica Alfano penserà che gli italiani non abbiano capito che gli interessa solo fare il ministro, perché così sottovaluta l’intelligenza dei suoi concittadini. Stessa cosa vale per quasi molti altri. Bisogna ricordare, però, che alla fine una scelta di poltrone resta un cattivo investimento, specialmente quando altre ragioni di sostanza, d’altronde, proprio non se ne vedono.
Forza Italia, invece, rotto il patto nazareno, non riesce a spiegare perché un giorno si allea e un giorno no con Salvini, al di fuori delle mire opportunistiche degli uni e degli altri. Mentre la Lega, da par suo, vive la sindrome della purezza, volendo la collaborazione senza cooperazione con Berlusconi, temendo una perdita di beneplaciti a stare con gli altri. Insomma, qualcuno dica qualcosa di politico, per Diana!, e non solo cosa vuole per se stesso.
Il punto è che tutti politici moderati, cominciando da quelli dell’opposizione, si dovrebbero fermare un momento a riflettere sulla ragione sociale della loro esistenza e sul perché abbiano deciso a un certo punto della loro vita di occuparsi del bene comune. Che la smettano di concentrarsi solo sulla giustificazione quotidiana della loro relativa sopravvivenza. Infatti, laddove non regna il consenso, come nei sistemi autoritari, può avere senso fare i machiavellici, ma in democrazia mostrare che dietro la voglia di potere non c’è nulla è rassegnarsi a un declino ineluttabile e a un’impopolarità assicurata.
I cittadini si chiedono qual è la logica per cui il centrodestra esiste ancora. E la risposta a questa domanda non arriva. Chiediamoci perché.
In realtà a mancare è la coscienza politica, ossia quella molla spirituale e vocazionale per cui una persona decide di occuparsi del potere portando avanti un progetto in nome di tutti. Renzi, con i suoi difetti, è portatore di una sua idea riformatrice, discutibile quanto si vuole, ma consistente. Nel centrodestra viceversa, soprattutto nella parte centrista, non si vede assolutamente quale sia la missione liberale, popolare e conservatrice che s’intende avere, semplicemente perché nessuno ce l’ha.
Tempo fa Berlusconi aveva dato ai suoi militanti giovani il famoso discorso sulla discesa in campo del 1994, ormai ribattezzato “il nuovo miracolo italiano”. Probabilmente egli stesso, ma anche Alfano, Verdini e co., dovrebbero riascoltarlo per capire quanto sia vero che in politica niente avviene per caso, ma il successo è conseguenza della capacità di trasmettere un’idea di Paese alla propria gente.
Questa considerazione vale specialmente per chi, come Fitto, ha mire legittime di leadership.
Troppa tattica, troppe valutazioni, troppi calcoli: questo è il dramma politico di una classe dirigente di centrodestra cresciuta per decenni nella convinzione che perseguire esclusivamente il potere personale, anche in modo serio, senza una minima fede politica sia sufficiente per avere un vitalizio milionario. A parte Salvini, che alcune convinzioni, nel bene e nel male, sembra averle, per gli altri vi è lo svilimento quotidiano del proprio compito collettivo, sacrificato sull’altare del proprio egoismo.
L’anarchia odierna è effetto del nulla. E dal nulla si esce solo con una causa. Questa giustificazione deve essere una convinzione intima, profonda, che spinge un politico ad ambire al potere per fare qualcosa di grande per gli altri. Le manie di potenza, da sé, non servono a nulla, perché la gente le vive già negli uffici e nei posti di lavoro, come soprusi o meschinità. E, almeno fin quando la nostra Repubblica continuerà a fondarsi sulla sovranità popolare, il consenso si guadagnerà avendo qualcosa da raccontare ai cittadini, indicando un destino comunitario migliore oltre il presente. Non è vero che a destra si può fare politica solo essendo scaltri. Soprattutto non è vero che non vi sia un ethos culturale in Italia al di fuori del progressismo.
Il potere, in effetti, genera consenso solo quanto materializza gli ideali di una coscienza politica nazionale. Nel centrodestra questi valori alti e permanenti dovrebbero assumere una forma quasi religiosa. Anche perché, come si vede, senza contenuti spirituali cresce soltanto o l’anarchia, o l’anti democrazia, oppure il sinistrismo.