Patto sì, patto no, patto forse. A chi giova, chi ne fa le spese, chi ha tutto da perdere. Partiti che si spaccano, altri che si allargano. Soccorritori dei vincitori, demolitori dei vinti. Un panorama bizantino. E le riforme dovrebbero fiorire nel letamaio politico. Proprio come i trasformisti che nell’olezzo prosperano, dal dolce tepore delle turpitudini partitiche si lasciano avvolgere, dalla paura di restare senza poltrone traggono coraggio per tradire ciò che ieri affermavano essere sacrosanto. Centosessanta parlamentari in meno di due anni hanno cambiato casacca. Prima del patto, durante il patto, a patto stracciato o soltanto lacerato, consunto, sbiadito.
È la storia italiana di sempre. Dall’autunno 1943. Non ci facciamo più caso. Mentre le stelle stanno a guardare. Passano così partiti, pezzi di partiti, brandelli di partiti e singoli rappresentati del popolo, sempre senza vincolo di mandato naturalmente, da una parte all’altra. È il bello della democrazia. A destra e a sinistra. Al centro soprattutto. Ma più realisticamente in quel luogo di nessuno che è diventata la palestra parlamentare dove si esercitano da tempo immemorabile egoismi e messe in scena di bassissimo conio.
La Repubblica è infelicemente appesa agli umori di questo e di quella. Ma no che non ci meravigliamo: per quanto affezionati ad un’anticaglia che chiamiamo decoro, non possiamo fare gli schizzinosi. E che diamine: i cani sciolti privi di un decente pedigree politico-culturale, ma anche di classe, alla gogna e i gli ex-seguaci del Grande Tecnocrate o del Grande Comico o del Grande imbonitore o del Grande qualcosa a prescindere sugli altari? Non è giusto, non è bello. Il salto della quaglia va costituzionalizzato a questo punto. È o non è un segno di democrazia matura prendere i voti da una parte e trasferirli a quella avversa giustificando il passaggio in nome del bene di parte che nella vulgata corrente viene spacciata per bene comune?
Renzi, si dice, non ha più spazio al Nazareno. Si fa spintoni per guadagnare uno strapuntino. Le infelicità bersaniane sono state riposte nel capace ripostiglio insieme con le nostalgie post-comuniste. Di guardia non c’è nessuno: a quale mentecatto potrebbe saltare in mente di portarsi via qualche cimelio del tempo che fu? La Bolognina è antiquariato fuori moda; il dalemismo modernariato kitsch: non hanno mercato. Splende il giglio fiorentino e poco male se non profuma. Conta la sostanza. E la sostanza è la calamita del potere ancor più afrodisiaco in assenza di concorrenza (altrimenti detta opposizione: ma è un termine politico desueto, come desueta è la politica stessa).
Ecco allora frotte di neo-renziani che si accalcano nella certezza di sopravvivere.
Occorrerebbe un etologo come Konrad Lorenz per spiegare le pulsioni alla conservazione piuttosto che un pensatore realista come Edmund Burke capace di illuminare sulle tendenze sociali volte alla preservazione dei valori. L’etologia di occupa di istinti animali; la politologia di organizzazioni umane. Il trasformismo rientra a pieno titolo nella prima scienza, ma ha contaminato la seconda. Ed infatti l’impulso a seguire l’oca Martina, resa celebre dal premio Nobel austriaco, ha fatto proseliti nella classe politica italiana. Responsabili e disponibili gli eletti dal popolo sanno sempre dove andare. Per non affogare, naturalmente. O soltanto non perdersi.
Noi tutti dovremmo ringraziare coloro i quali si esercitano nel pericoloso (ma quanto vantaggioso) doppio o triplo salto parlamentare, sorvolando gli scranni con l’abilità degli uccelli predatori notturni: ci fanno capire che la sopravvivenza è alla portata di ognuno. Basta avere una fragile coscienza.