A scanso di equivoci, chi scrive, nel suo piccolissimo, è e resta convinto delle tesi “neocon”, a lungo criminalizzate in Italia e in Europa (a mio avviso, appunto, più criminalizzate che studiate). In supersintesi, sono davvero persuaso che per l’Occidente sia doveroso tenere alta la bandiera della promozione globale della libertà e della democrazia; e che ciò corrisponda non solo a ragioni ideali di fondo, ma anche alla migliore tutela concreta della nostra stessa sicurezza.
In tanti fanno purtroppo finta di non comprendere che la guerra c’è già, ed è stata dichiarata contro di noi (“noi” Due Torri, Londra, Madrid, Parigi, Copenaghen, dal 2001 a oggi, in forme e con sigle diverse ma nell’ambito di una ben precisa ideologia fondamentalista). Si tratta di guardare negli occhi questa dura realtà, sapendo purtroppo che anche il nostro Occidente ha compiuto e compie errori drammatici, di cui la situazione fuori controllo in Nord Africa è solo l’ultimo esempio.
E veniamo dunque al teatro libico, su cui molto volentieri do atto a pochissimi (tra questi, da un lato al sottosegretario Marco Minniti, e dall’altro proprio a Formiche.net) di avere acceso i riflettori da tempo, nella disattenzione pressoché generale.
Ora, d’un tratto, tutto il governo italiano sembra fare della possibilità di un intervento militare una priorità. E chi ha convinzioni come le mie non può che convenire.
Ciò detto, però, mi pare quantomeno approssimativo e superficiale il modo in cui da troppe parti si imposta la questione. Cito alcuni punti.
Primo: quando, la scorsa settimana, il Presidente Obama ha chiesto poteri di guerra al Congresso rispetto alla situazione in Siria, ha prospettato un impegno di tre anni. Siamo consapevoli del fatto che in Libia potrebbe trattarsi di un impegno analogo per durata e rilevanza (e che noi non siamo gli Stati Uniti d’America)?
Secondo. Per le dimensioni del territorio libico, per il disordine esistente sul campo, per la varietà e la violenza delle forze impegnate, per l’immenso arsenale proveniente dal vecchio regime e al quale in tanti hanno potuto così significativamente attingere, la missione non potrà certo risolversi in qualche settimana, o con qualche centinaio di uomini, o solo con interventi aerei. Siamo consapevoli di questo, in termini di rischi, costi, impegni, lutti?
Terzo. Ammesso che tutto vada bene, abbiamo uno scenario credibile per il “dopo”? Qual è lo scenario “post-bellico” al quale puntiamo?
In mancanza di chiare risposte a questi interrogativi, e di un adeguato dibattito pubblico su ciascuno di essi, saremmo dinanzi a un’avventura da irresponsabili, o – peggio – a una sorta di “arma di distrazione di massa” che qualcuno pensa di poter utilizzare per spostare i riflettori da un 2015 che si annuncia deludente dal punto di vista economico, e inconcludente dal punto di vista politico.
Forse vale la pena di chiarire subito se vogliamo fare una cosa seria (adeguata alla drammatica serietà criminale di chi ci minaccia), o se siamo alla prosecuzione del teatrino italiano con altri mezzi.