Cambiamento storico destinato a rivoluzionare il rapporto tra cittadini e giustizia o intervento illusorio che riafferma l’intangibilità delle toghe per tutte le loro scelte? La legge sulla responsabilità civile dei magistrati approvata nell’Aula di Montecitorio alimenterà per molto tempo riflessioni e confronti tra punti di vista differenti.
Ma un elemento è evidente. Il Partito democratico di Matteo Renzi è riuscito laddove il centro-destra ha registrato uno dei fallimenti clamorosi in vent’anni di promesse elettorali e di opportunità irripetibili.
A ragionare sul tema con Formiche.net è Giuseppe Di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario presso l’Università di Bologna, già componente del Consiglio superiore della magistratura, a lungo animatore delle iniziative parlamentari e referendarie radicali in tema di giustizia.
Le nuove regole sulla responsabilità civile dei giudici rappresentano una riforma effettiva?
Sì e no allo stesso tempo. Sì perché viene realizzata un’iniziativa osteggiata dall’Associazione nazionale magistrati. Metterne in secondo piano le rivendicazioni costituisce un elemento innovativo. L’aspetto più critico è che l’intervento legislativo cerca di risolvere con la responsabilità civile delle toghe problemi ben più rilevanti.
Quali?
Negli altri Paesi europei è fondamentale la valutazione seria di professionalità dei giudici. Un requisito irrinunciabile per l’indipendenza e l’autonomia da illegittimi condizionamenti interni ed esterni di persone che possono restare in carriera per 40-45 anni. Arrivando tutte al livello massimo di retribuzione e pensione. Realizzare tale obiettivo vuol dire generare forme di responsabilità efficaci.
Come agiscono le altre nazioni dell’Ue?
Organizzando il pubblico ministero in forma gerarchica. Alle dipendenze del ministro della giustizia o del procuratore generale nominato su proposta del governo. In tal modo i pm realizzano le strategie penali stabilite in sede politica, in modo trasparente e con piena responsabilità di fronte all’opinione pubblica. Mentre in Italia ogni sostituto procuratore è protagonista di una propria specifica politica criminale.
Quanto incide l’obbligatorietà dell’azione penale al riguardo?
Molto. Visto che non è possibile perseguire ogni cosa, l’istituto si trasforma in una copertura per giustificare come atto dovuto tutte le iniziative discrezionali dei pubblici ministeri. Il suo superamento è un mio chiodo fisso da 40 anni. E per tale ragione sono stato “bollato” come il nemico pubblico numero uno dell’ANM, ancorché la gran parte dei miei amici siano magistrati. Una volta neanche se ne poteva parlare.
Addirittura?
Ricordo che l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga voleva affrontare l’argomento nel CSM. Ma di fronte a ciò che appariva un tabù preferì far cenno a un viaggio in Gran Bretagna, limitandosi a spiegare che Oltremanica la sua regolamentazione non era molto marcata. Ma vi è un problema ulteriore che scaturisce dalla carenza di graduatorie di merito fra le toghe.
Di cosa si tratta?
Mi riferisco all’egemonia delle correnti fra le toghe. Se tutti sono bravi allo stesso modo, emerge l’esigenza di raccomandazioni da parte di gruppi organizzati, che influiscono sulle decisioni del Consiglio superiore. Scelte raramente fondate su elementi certi e rigorosi.
A fronte di promesse roboanti, in oltre vent’anni Silvio Berlusconi e il centro-destra non hanno realizzato nulla di liberale nel pianeta giustizia. È un fallimento impietoso.
Ricordo la mia esperienza di “membro laico” del CSM su indicazione di Forza Italia. Per cui qualche volta ho votato e ho scritto programmi di riforma della giustizia. Pensi che il testo di revisione costituzionale in materia presentato nel 1997 dalla Commissione parlamentare bicamerale guidata da Massimo D’Alema riprendeva argomenti da me formulati.
Ma nelle iniziative del centro-destra non vi è traccia di responsabilità civile dei giudici, separazione delle carriere, riduzione del peso delle correnti, abrogazione dei ruoli extra-giudiziari.
Non ritengo che tale schieramento politico potesse fare qualcosa di diverso. L’alleanza comprendeva figure come Gianfranco Fini che di liberale non aveva nulla, e formazioni che non accettavano il cambiamento necessario della giustizia. Nel mondo moderato giungevano molte risonanze dell’ostilità coltivata dal panorama post-comunista verso le iniziative innovatrici.
Se Berlusconi avesse promosso e cavalcato le campagne referendarie radicali in tema di giustizia la storia sarebbe stata diversa?
Certamente. Sono stato protagonista della redazione delle richieste abrogative del 1999-2000 e del 2013. Ma le responsabilità per la permanenza dello status quo non sono esclusivamente politiche.
A cosa si riferisce?
Alla realtà accademica, ben poco favorevole alle ipotesi di modernizzazione dell’ordinamento giudiziario. E allo stesso universo degli avvocati penalisti, che con rare eccezioni ha sempre guardato all’obbligatorietà dell’azione penale come a una garanzia dell’eguaglianza davanti alla legge. Rinunciando a promuovere la tutela dei diritti civili in un confronto aperto con il ceto politico.
Al contrario il Partito democratico sembra muoversi nella giusta direzione.
Non mi pare. Storicamente il centro-sinistra ha accolto e rilanciato le aspirazioni e posizioni corporative dei magistrati. E il governo del Pd non ha messo in campo interventi in tema di valutazioni professionali dei magistrati, revisione del ruolo e struttura del pubblico ministero, processo penale, correnti del CSM. Ha soltanto cercato di attenuare gli effetti negativi del sistema attuale con misure limitate. È necessario valutare cosa accadrà d’ora in poi.