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Chi risponderà della morte annunciata di Marco Biagi?

Oggi ricorre il XIII anniversario dell’assassinio di Marco Biagi. Nelle iniziative dedicate alla sua memoria si accenna appena al fatto che, da mesi, la Procura bolognese ha riaperto le indagini sugli eventi che determinarono la soppressione della tutela ad una personalità evidentemente in pericolo. L’inchiesta ha portato – a tanti anni di distanza – ad incriminare per il reato di omicidio per omissione il ministro degli Affari interni e il Capo della Polizia dell’epoca.

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Marco non aveva esitato a rivolgersi a tutte quelle personalità che erano in grado (almeno così pensava) di garantire la sua incolumità minacciata da misteriose e frequenti telefonate. Il 15 luglio del 2001 aveva persino inviato, tra le altre, una lettera in cui esprimeva le sue preoccupazioni all’allora Presidente della Camera Pier Ferdinando Casini – che Biagi conosceva personalmente – il quale si era sicuramente attivato nei confronti del Viminale. L’identikit del Professore era comparso, nero su bianco, nel rapporto dei Servizi che indicavano, tra i possibili obiettivi del terrorismo, figure di consulenti ministeriali su problematiche di particolare delicatezza. Di quel rapporto, ampi stralci furono pubblicati su di un’importante rivista nazionale alcuni giorni prima del delitto.

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Le minacce che Biagi riceveva (e che lo sollecitavano a chiedere ostinatamente il ripristino di quella protezione che gli era stata tolta) furono a suo tempo la “questione politica” dell’inchiesta, dopo la pubblicazione del carteggio elettronico tra Biagi e i suoi interlocutori. Anni dopo, si scoprì un tabulato, fino a quel momento ritenuto inesistente, da cui risultava che Biagi diceva la verità sulle minacce che riceveva. Invece, qualcuno, tra i responsabili tenuti a provvedere alla sicurezza del professore, lasciava intendere che, forse, quelle segnalazioni inquietanti erano addirittura inventate.

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C’è una lettera molto significativa ad amici in cui Marco dava conto dell’emarginazione che incontrava, nel suo ambiente, per aver accettato di collaborare col Governo di centro destra. Del Libro bianco del 2001, di cui ora tutti tessono le lodi, furono scritti apprezzamenti insultanti. Il professore – caduto a Bologna, in via Valdonica, tredici anni or sono – trascorse gli ultimi mesi di vita confinato in una sorta di morte civile, nell’accademia e tra i colleghi. Spesso anche tra gli amici più cari. Gli toccò di andare su e giù per l’Italia a difendere, ovunque lo chiamassero, il progetto di legge a cui aveva lavorato e che, approvato dopo la sua morte, porta ancora il suo nome. Persino la Pastorale del Lavoro lo invitò ad un incontro e lo trattò con freddezza. Ci sarà mai qualcuno chiamato a rispondere di un isolamento che trasformò Biagi in un simbolo e che ne precostituì la morte annunciata?

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