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Vi spiego perché la coalizione di Landini è desueta. Parla Bruno Manghi

Costruire un grande progetto alternativo alle politiche liberiste, rilanciare l’intervento pubblico nell’economia per promuovere una redistribuzione della ricchezza, sfidare il governo Renzi “artefice dello smantellamento dei diritti nel mondo del lavoro”. È l’ambizione che anima la “coalizione sociale” lanciata dal leader della Fiom Maurizio Landini.

Per capirne l’orizzonte e l’approdo possibile Formiche.net si è rivolta al sociologo Bruno Manghiesperto di questioni sindacali, saggista per il Mulino e protagonista delle lotte dei metalmeccanici nella Cisl guidata da Pierre Carniti.

Come valuta l’iniziativa politica lanciata dal numero uno delle “tute blu” della Cgil?

Mi ricorda ciò che accadde in Rifondazione comunista quando Fausto Bertinotti detronizzò l’allora segretario Sergio Garavini. Venne a crearsi un vuoto politico caratterizzato dall’attesa di figure nuove. Maurizio Landini resta un sindacalista, e non credo coltivi l’aspirazione sovrumana di costruire un partito. Ma porsi a metà strada è un po’ complicato. Anche perché coalizioni del genere si formano alla vigilia di eventi elettorali. E allontanarsi troppo dal proprio ruolo nella Fiom può essere rischioso.

Non è la prima volta che una personalità sindacale di spicco tenta “l’avventura politica”.

È accaduto spesso nella storia tentare di capitalizzare il consenso raccolto attraverso l’attività di rappresentanza dei lavoratori in termini di forza politica. Nella prima metà del Novecento il mondo sindacale statunitense promosse un movimento parallelo chiamato Free Speech Fight, che rivendicava per tutti la libertà di parlare in pubblico per rivendicare i propri diritti. Facoltà che in molti Stati della federazione nordamericana trovava notevoli restrizioni.

E in Italia?

Vi fu l’esperienza dell’Acpol-Associazione di cultura politica promossa da leader sindacali e politici come Carlo Donat Cattin, Pierre Carniti e Livio Labor. Il quale la trasformò poi nel Movimento cristiano dei lavoratori.

È convincente la fisionomia di una coalizione che abbraccia Emergency e Arci, Gruppo Abele e Articolo 21, Giustizia e Libertà e parlamentari fuoriusciti dal Movimento Cinque Stelle?

È un classico rassemblement, che abitualmente non funziona molto. Perché la potenza del magnete centrale deve esser enorme. Peraltro tutte le realtà aderenti custodiscono gelosamente la loro identità. Ricordo nel versante cattolico il tentativo dei Forum di Todi, che contò molto nell’immediato ma si sciolse con rapidità clamorosa. Aggregazioni simili hanno una prospettiva in presenza di un vero avversario – e Matteo Renzi non rappresenta il nemico assoluto – o in fasi di emergenza economico-sociale. Vi è un unico elemento che gioca a favore di tale iniziativa.

Quale?

L’antagonismo sociale e il conflitto distributivo nel nostro paese non emergono nel cuore della crisi, bensì di fronte ai barlumi di ripresa economica. Esattamente il momento attuale.

Landini rifiuta di attribuire l’etichetta di partito al nuovo cantiere sociale. Ma non pensa che la Fiom abbia acquisito un ruolo politico?

Certamente. Lo ha fatto nel solco di una tradizione che discende da un leader storico delle “tute blu” Cgil come Claudio Sabattini. È una vicenda peraltro comune a tutte le organizzazioni confederali dei lavoratori metalmeccanici. Il cui protagonismo politico presenta affinità con quello dei minatori in Gran Bretagna e degli operai dell’automobile negli Usa. Tuttavia oltre un certo livello la Fiom non può identificarsi con Landini. E non può mascherare con la risonanza mediatica del leader le fragilità interne.

Il segretario delle “tute blu” parla però di rinnovamento delle organizzazioni sindacali e fa proprie le rivendicazioni delle “partite Iva autentiche.

E ha ragione. È riuscito a comprendere che negli ultimi vent’anni il sindacato ha speso considerevoli risorse morali e materiali per chi resta nel suo perimetro anziché investirle verso i lavoratori esterni. Ma non è facile sindacalizzare il mondo del lavoro autonomo, fluttuante e individualizzato. Gli americani lo stanno tentando nella costa Ovest, come fecero in passato con gli agricoltori del Mid West.

Con il fiorire di iniziative a sinistra del Partito democratico, Matteo Renzi può rafforzare la propria centralità politica?

Sì. Al contrario dell’Ulivo, costretto a ricercare continue alleanze alla propria sinistra vista la presenza di un avversario potente nel centrodestra, il Pd non ha l’esigenza di compiere tale rincorsa. Ma è positivo che quel mondo antagonista trovi rappresentanza in Parlamento. Compito svolto attualmente dai Cinque Stelle in forma più innovativa.

La “coalizione sociale” di Landini non lo è?

Questa sinistra ricalca modi e schemi desueti, che rientrano in un alveo di “battaglie obbligate” ma superate come la difesa dell’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una partita persa in partenza, nonostante il tema dei licenziamenti disciplinari richiedesse regole migliori. Sa quale è il problema?

Prego.

La problematica dei diritti, creata a suo tempo da un grande dirigente sindacale come Bruno Trentin, è stata immiserita. Perché viene utilizzata e invocata per ogni cosa, non per l’essenziale. È brandita per la difesa della rivendicazione specifica, mai per quelle altrui. A quel punto “i diritti” perdono valore.



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