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Quel sacrificio che non si può dimenticare

Quello che è avvenuto nel 1992 è frutto di un vuoto politico. A mio avviso, nasceva dalla crisi che si trascinava dalla fine della “solidarietà nazionale” e dall’uccisione di Aldo Moro. La mafia colse quel momento di debolezza per rispondere alla forte azione che il governo aveva compiuto contro di essa. La magistratura si mosse di fronte al problema del finanziamento dei partiti. Non si trattava di problemi di poco conto: ero allora ministro dell’Interno, ne ricordo qualcuno. Il primo è costituito dalla contraddizione tra l’intensità della lotta contro il crimine mafioso e la debolezza delle forze politiche che la stavano conducendo. Il secondo è rappresentato dall’incapacità della classe politica di allora di capire la profondità della crisi che si era aperta e di salvare la funzione dei partiti e della politica, che sono il principale fattore di stabilità in una democrazia come quella italiana. Il terzo è delineato dall’isolamento in cui si trovavano alcuni personaggi che avrebbero invece potuto dare un contributo alla tenuta delle istituzioni e ad una loro riforma senza i traumi che ci sono stati. Ad esempio, ogni volta che si parla di Falcone si riaccendono le polemiche sulle ostilità che la prospettiva della sua nomina a procuratore nazionale anti-mafia incontrò all’interno della magistratura.

Nella storia d’Italia non c’è stato un altro periodo come quello tra il 1990 e il 1992 in cui si siano concentrate tante iniziative legislative contro la mafia: dalla direttiva per la cattura dei latitanti e dei ricercati famosi, al mandato di cattura per decreto legge nei confronti dei mafiosi del maxi-processo istruito da Falcone, alle tante leggi antimafia, al problema dell’atteggiamento degli apparati pubblici. La risposta di Cosa Nostra fu una risposta data alzando progressivamente il tiro e colpendo alcune figure simboliche. La prima di queste fu Libero Grassi dopo che il governo aveva attivato un’azione anti-racket nelle varie province. Il secondo bersaglio fu Salvo Lima. Un segnale politico, soprattutto dopo il decreto legge grazie al quale erano stati arrestati i boss liberati da una sentenza della Corte di cassazione sui tempi di carcerazione preventiva. Poi ci fu l’escalation, con l’uccisione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Intanto, tra febbraio e marzo, il capo della polizia, Vincenzo Parisi, aveva diramato una circolare di allerta ai questori sul pericolo di iniziative destabilizzanti di varia natura.

E io, in quanto ministro dell’Interno, la feci ai prefetti. Ci furono le prime norme sui collaboratori di giustizia e vennero costituiti i primi nuclei speciali delle forze dell’ordine. Si sospesero, per i reati di mafia, alcune delle normative della legge Gozzini, incontrando subito una sollevazione dei garantisti, che si presentò come un’azione di attacco contro il nostro lavoro. Si aprì tutto il dibattito sui nuovi strumenti di investigazione e venne sollevata la questione del coordinamento delle indagini. Si pose cioè il problema della difficoltà di svolgere efficaci indagini sulla mafia continuando a tener ferme le competenze territoriali delle procure. Ci fu una lunghissima discussione in Parlamento su due provvedimenti di legge. Uno era quello relativo allo scioglimento dei Consigli comunali sulla base di una valutazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Interno, sul grado di condizionamento della vita dell’Amministrazione da parte di cosche mafiose. Certo, nessuno s’illudeva di combattere in questo modo il vertice di Cosa Nostra, ma era il mezzo per affermare il “potere” dello Stato contro quello delle cosche. Poi ci furono le decisioni riguardanti la Dia-Dna, cioè tutta la riorganizzazione degli apparati che, però, per i contrasti che accompagnarono la loro elaborazione, fu impossibile presentare in un unico provvedimento. I contrasti avevano al loro centro una preoccupazione: che crescesse l’influenza dell’esecutivo sul sistema giudiziario. Fu così necessario contenere i poteri di avocazione della Procura nazionale antimafia; venne poi riassorbita l’idea di sciogliere tutti i vari corpi speciali e concentrarli in un unico organismo investigativo che, nella nostra idea, non avrebbe dovuto essere una polizia giudiziaria, ma una grande intelligence sulla criminalità organizzata, che offrisse poi i risultati ottenuti alla magistratura e alla polizia giudiziaria. Questo disegno di investigazione e di coordinamento giudiziario era legato alla nomina di Giovanni Falcone a procuratore antimafia. Mi resi conto però che Falcone era un uomo sul quale i giudizi si spaccavano letteralmente in due: c’erano i grandi elogi e c’erano i grandi attacchi. Come succede sempre a tutti gli innovatori, aveva contro sia quelli che volevano conservare, sia quelli che volevano cambiare, ma non si fidavano di lui, soprattutto perché aveva accolto l’invito di Martelli.

Non dimentichiamo neppure il prestigio internazionale che Falcone aveva. Per queste ragioni convergevano contro di lui sia forze tradizionali della magistratura, sia forze della sinistra insofferenti a Martelli. Io ero convinto – e a questo lavorai prima con Giuliano Vassalli e poi con Claudio Martelli – che fosse necessario operare un cambiamento di rotta piuttosto forte e dotare la polizia e la magistratura di strumenti adeguati. Nuove leggi erano certamente decisive, ma decisiva avrebbe dovuto essere anche la loro gestione: bisognava dare il senso che era ormai cambiata l’azione del governo. La misura più importante fu il decreto finale che preparai con Martelli e che passò dopo l’uccisione di Borsellino. Non si trattava solo del 41 bis, che poi nessuno attaccava, ma c’era una serie di cambiamenti del codice di procedura penale che sollevò una grandissima reazione.

Si trattò, nel complesso, di misure che ebbero due effetti. Da un lato, quello che definirei un grosso “impatto di annuncio”, che è un fatto che conta nella lotta contro l’organizzazione mafiosa. Dall’altro lato, ebbero positivi risultati sul piano dell’attacco ad alcune cosche in particolare nei confronti dei corleonesi che subirono proprio in Sicilia il colpo maggiore. Fu il segnale di uno Stato non rassegnato di fronte alla mafia, che dovette prendere atto che il Paese non era disarmato. La mafia comprese il messaggio di uno Stato non rinunciatario, ma pronto ad esercitare la sua “forza” e rispose subito a partire dall’uccisione di Lima. Quella fu una stagione di grandi cambiamenti dell’azione di governo, dovuti al nostro impegno dei ministri dell’In¬terno e della Giustizia ed ebbe i suoi due simboli in Falcone e Borsellino. Due personaggi che mantenevano un distacco dalla politica e dalla vita pubblica, ma che esprimevano un altissimo senso delle istituzioni e del loro funzionamento. M’imbattei in Giovanni Falcone, subito dopo essere stato nominato ministro dell’Interno, nell’ottobre del ‘90. Lo incontrai a Palermo per discutere con lui il problema dei pentiti. Avevo da poco parlato con Rudolph Giuliani che era allora procuratore dello Stato di New York ed aveva condotto una serie di indagini utilizzando i pentiti e con lui discussi, appunto, di pentiti e anche dell’idea di un organismo investigativo speciale. Andai quindi a parlarne con Falcone che era il riferimento più importante e fu ricco di consigli, di indicazioni, di suggerimenti. Capii che sarebbe stato estremamente utile avere a Roma una cabina di regia di tutta l’operazione antimafia e che proprio Falcone era indispensabile per quel ruolo.

Falcone e Borsellino avevano impostato la lotta alla mafia in termini molto duri, molto cogenti, ma era una lotta mirata, un intervento di chirurgia specifico che non doveva essere e che non fu devastante per il resto. Sono convinto che fu una stagione positiva. Una stagione che non può essere infangata da polemiche sterili e pericolose per la tenuta stessa del sistema democratico, come quelle a cui assistiamo ultimamente. Facciamo attenzione, lo dico con grande chiarezza, a non confondere le carte, a non ingenerare sospetti a partire da presunte trattative tra lo Stato e la mafia. Chi ha vissuto quella stagione e chi ha a cuore il valore della democrazia sa che, in quegli anni, le parti in campo erano molto chiare e la volontà di contrastare il crimine era ben radicata e determinata. Voglio ricordare chi non è più con noi, eroi di uno Stato che – pur non scevro da errori – ha pagato la sua deter-minazione con la vita di alcuni suoi grandi servitori.



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