Gli anni renziani, pochi o tanti che saranno, ruberanno molte suggestioni da passate stagioni politiche. Qualcosa viene dal primo dopoguerra con quel deserto industriale che venne coltivato da coraggiose politiche fondate sulla “civiltà delle macchine”: oggi si dovrebbe cercare di battere la stessa strada. Qualcosa dagli anni Sessanta quando si cominciò a sentire il brontolio di fondo di una società insoddisfatta. Brontolio che oggi è diventato un boato. Persino gli anni Ottanta, con quella voglia di cambiar tutto e quell’ottimismo di maniera tutto milanese, sembrano nelle corde del renzismo.
Indubbiamente, però, è la seconda metà degli anni Novanta il vero termine di paragone fra l’oggi e il passato italiano recente. Lì è successo tutto. Nel volgere di pochi mesi è crollata un’intera struttura politica repubblicana, classi dirigenti sono state spazzate via, da Roma alla periferia, sono spariti partiti politici che avevano rappresentato l’immaginario collettivo di milioni di italiani, l’occidente, più che la (temuta da Gianni Agnelli) Magna Grecia, sembrava il nostro avvenire. Guida assoluta, per poche settimane, Mario Segni, uno dei personaggi più decisivi e fragili nel passaggio di Repubblica. Lui e Achille Occhetto sono stati indiscutibilmente gli uomini della Provvidenza, l’uno cogliendo la dissoluzione di un sistema politico ormai inviso agli italiani, l’altro portando in salvo dal crollo del comunismo l’esercito della sinistra. Ma lo sono stati come quei personaggi da un solo istante, l’anatomia del quale, come ci insegna Javier Cercas, spiega tante cose della storia di un Paese.
Dopo di allora gli anni Novanta hanno raccontato un’altra storia, imposto altre passioni, chiamato ad altre sfide. A Renzi tocca subire la fortuna e l’onta dei paragoni con i predecessori. La sinistra che ha sconfitto e che non lo ama né lo amerà mai, non trova in lui il “prosecutor” di Amendola e Lama, cioè della componente socialdemocratica del comunismo italiano, ma vede la resurrezione di due antichi “mostri”, uno ancora vivente, che hanno afflitto l’esistenza di quel piccolo mondo antico di postcomunisti che vorrebbe risollevare quella bandiera rossa che anni fa ha contribuito ad ammainare. I nomi dei predecessori sono Craxi e Berlusconi. L’uno prepotente – e non si può dire che anche Renzi non lo sia – e con in testa la riforma totale delle istituzioni e la ridefinizione di un nuovo rapporto fra politica e lavoro. L’altro, immaginifico e inconcludente capo della destra. Il suo vero fondatore, l’uomo di cui una gran parte degli italiani si è innamorata per oltre vent’anni. Due uomini di “destra”, il primo di destra nella sinistra, il secondo di destra vera. Non a caso entrambi socialisti, l’uno ne era il capo, l’altro un grande elettore.
Sottolineo questo aspetto perché nell’immaginario del piccolo mondo antico della sinistra d’antan l’essere socialisti è ancora una maledizione e una predestinazione a svolgere il ruolo di “cattivo”. Togliendo per un momento dal desk il tema del rapporto di Renzi con la sua sinistra e il tema dei fantasmi della sinistra, il raffronto con la seconda metà degli anni Novanta è sicuramente curioso e pieno di suggestioni. La Seconda repubblica nasce da diverse intuizioni berlusconiane. Due in assoluto: la destra c’è ed è forte, la destra deve superare le colonne d’Ercole della propria identità dimezzata, deve chiamare alla battaglia contro la sinistra dandole il nome storicamente inviso a una maggioranza di italiani: sono tutti comunisti.
A sinistra si pensava che dopo Eltsin, Gorbaciov e Occhetto tutto fosse finito. D’Alema e Veltroni si consideravano talmente “post” da non porsi il problema di dover motivare il passaggio d’epoca. Berlusconi capì, invece, che gli italiani non credevano alle lacrime postcomuniste. E che per decenni non avevano temuto il comunismo reale dell’est, ma il comunismo concreto di questa parte di ovest dove lo Stato la faceva da padrone, cosa che per lunghi anni agli stessi italiani era piaciuto. Berlusconi colse così la sua prima mela. Di fronte a sé aveva il compito di rifondare la Repubblica, contando su un partito da lui costruito e manipolato, su un consenso eccezionale, su un’aria che tirava assolutamente favorevole, infine su un’opposizione che, non capendolo, sceglieva la strada della sua “mostrificazione” creando così il proprio nemico interno che l’avrebbe seppellita, cioè quel movimento giustizialista che combatté sia Berlusconi sia la sini¬stra tradizionale. È andata come è andata.
Berlusconi alla storia lascerà se stesso; gli analisti più generosi conteranno i tentativi falliti di riforma; il mondo che ha ereditato e che voleva cambiare è rimasto lo stesso, anzi è peggiorato. Renzi ha davanti a sé la stessa devastazione politica. Il sistema non è crollato ma le termiti stanno lavorando alacremente. Le istituzioni sono infragilite e non amate, la personalizzazione della politica ha creato il continuo bisogno di leadership carismatiche, la sinistra è rimasta la solita, noiosa, inconcludente priva di fantasia. Ma Renzi ha scoperto, berlusconianamente, che l’o¬pinione pubblica, quella che il Cavaliere (ormai ex) intuì temesse il comunismo, oggi teme la casta e nella casta teme quella di sinistra. Un po’ è merito di Grillo, un po’ di Paolo Mieli e dei suoi valorosi Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo che hanno inventato la clava che ha distrutto il vecchio mondo distogliendo l’attenzione dalle colpe degli imprenditori e degli uomini di finanza, molti dei quali nel board del “Corriere della Sera”.
L’attacco ad alzo zero di Renzi contro tutto ciò che è vecchia guardia somiglia così alla battaglia anticomunista e rifondatrice di Berlusconi. Tuttavia non è vero che sono uguali. Renzi, malgrado se stesso e i suoi nemici, non è di destra, ma un prodotto del volgere verso la liberaldemocrazia del socialismo europeo. Di Berlusconi ha il carisma, la forza fisica, le intuizioni mediatiche, la capacità di affascinare e di farsi odiare, che è altrettanto importante di quella che porta a farsi amare. Ecco che gli anni Novanta si ripresentano come genitori di questi primi decenni o anni o mesi o settimane renziane. Anche Renzi vuole cambiare tutto. Vuole farlo spudoratamente, non vuole discutere con chi gli si oppone. Il problema è se andrà a sbattere o no, come è accaduto al suo predecessore. Va detto però che il predecessore se non avesse avuto “quella” vita privata starebbe ancora oggi al centro della scena. Bisognerà quindi stare attenti alle notti di Matteo.