Luigi Marco Bassani è professore di Storia del pensiero politico contemporaneo all’Università Statale di Milano. Allievo e collaboratore di Gianfranco Miglio, è studioso del federalismo nordamericano al centro del pensiero e dell’opera di Thomas Jefferson e John C. Calhoun.
Una lettura liberale-libertaria della nuova Lega Nord
Per tale ragione ha focalizzato le proprie ricerche sulle istituzioni fondate sull’adesione e partecipazione spontanea dei cittadini, sulla competizione e la pluralità delle scelte, sulla più ampia valorizzazione delle libertà individuali.
Una visione profondamente ostile all’idea ed esperienza di Stato nazionale centralista e coercitivo che ha preso corpo in gran parte del pianeta.
Ed è in questo orizzonte che lo storico mette sotto la lente di ingrandimento il programma populista, protezionista, interventista e ostile alla globalizzazione liberale con cui il leader della Lega Nord Matteo Salvini ha promosso la manifestazione “Basta Renzi”.
La nascita del “fenomeno Salvini”
A giudizio dello studioso il numero uno del Carroccio non ha compiuto nessuna metamorfosi rispetto alla vocazione originaria delle “camicie verdi”.
La sua ascesa, racconta, prende avvio con la segreteria di Roberto Maroni. Figura che aveva preso le redini di un partito travolto dagli scandali e in crisi verticale di consensi. Al punto che “l’ex responsabile dell’Interno non era neanche sicuro di vincere nelle elezioni lombarde del 2013”.
Maroni, spiega lo storico, non aveva più bisogno della Lega Nord. E decise di “regalarne la guida” a Salvini: “Il quale era noto all’epoca per l’energia giovanile e per qualche coro da stadio. Ma con il tempo si è rivelato un politico vero”.
Promesse calpestate
L’intelligenza dell’attuale leader leghista, rimarca Bassani, è nell’essersi reso conto che i vecchi slogan federalisti, indipendentisti e secessionisti non potevano essere riutilizzati.
La ragione è semplice: “Per troppo tempo, una volta salito al governo e soprattutto dopo l’abbandono di Miglio, il Carroccio ha preso in giro l’elettorato del Nord tradendo le parole d’ordine originarie e pensando a difendere rendite di posizione parassitaria. Nel periodo 1991-1993 la Lega rappresentava la speranza di liberare il Nord dal parassitismo burocratico e fiscale dello Stato. Ma nei 12 anni al potere il movimento ha proposto solo la devolution del 2006”.
Una riforma ridicola e lontana anni luce da un’organizzazione federalista – osserva il docente universitario – ma che pure costituì agli occhi di Lombardia e Veneto un minimo di emancipazione rispetto alle zavorre a favore delle aree meno produttive. E le due regioni furono le uniche a votare a favore del progetto costituzionale, apertamente respinto nel resto del paese”.
Una scelta ponderata
A quel punto, anziché ricollegarsi con le aspirazioni autonomistiche, il segretario ha scelto di “gettarsi nella mischia con un programma di respiro nazionale”.
Abbracciato senza intraprendere cambiamenti personali e culturali. “Peraltro la torsione nazionalistica era già in atto quando Maroni decise di ricoprire il ruolo di capo del Viminale nella primavera 1994. Scelta poco coerente con il profilo di una forza territoriale”.
Rilanciando il partito su tale piattaforma, rileva il saggista, Salvini non ha semplicemente ravvivato la Lega con il buon risultato del voto europeo ma l’ha resuscitata come rivelano tutte le ricerche demoscopiche.
“Carroccio a favore dello status quo”
A fronte del fatto che Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna si vedono sottratti ogni anno dal fisco italiano 90 miliardi di euro, il Carroccio sta tentando la “via nazionale alla risoluzione dei problemi del nostro paese”.
E così, mentre un tempo prefigurava la macro-regione europea con la Baviera, oggi combatte la Germania modello di austerità per realizzare l’abbandono concordato dell’Euro-zona.
Comportamento che ad avviso dello storico riflette un’involuzione molto rilevante: “Per mantenere l’ancoraggio all’area della valuta unica, che mostra con limpidezza che riempie e chi svuota la borsa, è necessario superare i limiti dello Stato nazionale. La Lega punta esattamente al contrario: distruggere la moneta comune e conservare l’Italia così come è. Promuovendo la svalutazione tramite la crescita del debito pubblico e facendo pagare alle aree più produttive il risanamento di queste strategie”.
La negazione delle ricette originarie
La Lega Nord, evidenzia Bassani, è favorevole a politiche di redistribuzione massiccia di risorse sul territorio in una forma opposta a quella rivendicata nel passato: “Una contraddizione clamorosa che tuttavia le fa guadagnare adesioni in tutte le regioni alimentando l’interesse delle aree parassitarie”.
Grazie alla percezione che il Partito democratico di Matteo Renzi non è più il grande monolite statalista di un tempo, si sono aperte praterie per la propaganda statalista e protezionistica delle “camicie verdi”: “Con le perle di ostilità nei confronti degli Usa e delle democrazie liberali emerse nel viaggio di Salvini in Corea del Nord”.
Modelli e interlocutori privilegiati
Rientra in tale orizzonte l’abbandono di un approccio pragmatico e aperto nel terreno etico e delle libertà civili. E l’appiattimento “sul machismo omofobico della Russia di Vladimir Putin, assurto a modello della Lega Nord come il Front National di Marine Le Pen”.
All’interno dei confini italiani il rapporto privilegiato della realtà politica che un tempo fu definita “costola della sinistra” vede protagonisti Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale e Casa Pound.
Una Lega camaleontica
È vero, riconosce lo studioso. Ma attenzione: “Il Carroccio conserva, se pur in forma minoritaria, i temi primordiali dell’autonomismo e del federalismo indipendentista – Elementi che valorizzando la peculiarità territoriali costituiscono un baluardo contro fenomeni di razzismo – La sua caratteristica attuale è nel poter affermare, in uno spirito fascio-comunista di destra e sinistra, di essere localista e nazionale allo stesso tempo”.
Matteo Salvini, precisa Bassani, è stato bravissimo in tutto ciò. Ma con il numero uno delle “camicie verdi” alla guida del centro-destra, è la sua previsione, Renzi governerà per altri 30 anni.