Il percorso che ha portato nei giorni scorsi alle dimissioni annunciate di Alessandra Poggiani dalla direzione generale dell’Agenzia per l’Italia Digitale ricorda da vicino il processo che ha condotto all’altra separazione eccellente del Governo Renzi, quella del commissario alla spending review Carlo Cottarelli avvenuta nello scorso ottobre.
Diversi mesi di flusso carsico di gossip che ogni tanto affiorava sui giornali ed era puntualmente il primo argomento di ogni conversazione più o meno privata sui temi di competenza del duo di tecnici. Che curiosamente hanno anche motivato in maniera simile la volontà di impegnarsi in nuove avventure. In un’intervista al Corriere della Sera, alla vigilia del suo ritorno al Fondo Monetario Internazionale, Cottarelli sosteneva che “Dopo un anno, mi sembra che la parte principale del mio lavoro possa dirsi completata”.
Ad Alessandra Poggiani sono bastati 8 mesi per poter dire al Corriere delle Comunicazioni: “Ritengo che il grosso del mio lavoro sia stato portato a termine con il varo del piano banda ultralarga e Crescita Digitale”. Per la verità, in un’altra intervista, quella a Wired, rilasciata poco prima e poi disconosciuta, aveva definito il Piano per la banda ultralarga “assai limitato”.
In ogni caso, se bastano rispettivamente 1 anno e 8 mesi per portare sostanzialmente a termine due mission epocali come la spending review e la digitalizzazione occorrerebbe chiedersi per quale motivo il Paese su entrambi i fronti ha accumulato nei decenni ritardi da Guinness dei primati. E con quale fegato Renzi si sia lasciato scappare due problem solver del genere.
E’ evidente come i conti non tornino. Passi per Cottarelli, che il Presidente del Consiglio ha ereditato dal Governo Letta e che comunque ha trovato ad aspettarlo un esilio dorato a Washington, ma come la mettiamo con Poggiani? Chi mai scambierebbe un posto certamente stressante ma di alta responsabilità a Roma per quella che oggi appare nei sondaggi una mission impossible (l’elezione della candidata PD a Presidente del Veneto) in un ruolo che in ogni caso sarebbe di secondo livello rispetto a quello attuale? Tra l’altro, sia l’uno che l’altra hanno smentito più volte pubblicamente le proprie dimissioni, salvo poi essere smentiti a loro volta dai fatti. Dimostrando un’erraticità di comportamenti che stride con l’immagine pubblica di entrambi.
E’ dunque facilmente intuibile come le dimissioni siano da attribuire in entrambi i casi a dissidi all’interno del Governo (che peraltro non sarebbero certo una novità sulla scena politica italiana). Capiamo le esigenze del Premier di evitare le sterili discussioni pubbliche che contraddistinguono questo Paese e alla fine tendono a risucchiare nella palude delle polemiche quotidiane i Governi ma nelle due differenti vicende personali, ed è il motivo per cui ne scriviamo, riconosciamo soprattutto due tratti comuni che ci preoccupano non poco per il futuro dell’Italia.
In primo luogo, la totale opacità del processo che ha portato alle dimissioni di Cottarelli e Poggiani è un grave vulnus rispetto a due obiettivi (revisione della spesa pubblica e agenda digitale) che possono essere conseguiti solo nell’ambito di un ampio processo di partecipazione, il cui primo ingrediente è la trasparenza. Pensare di imporli dall’alto soltanto in modalità top-down può portare a risultati di breve periodo, nel lungo periodo si rischia di infrangerli contro una miriade di resistenze a livello centrale e locale. E anche le giuste mosse del Governo sul terreno bottom-up potrebbero risultare gravemente danneggiate. Conta poco avere qualche migliaio di digital champion sul territorio se poi non si è in grado di spiegargli cosa sta avvenendo a Roma. Oppure fare una consultazione pubblica sulla strategia digitale se dopo appena tre mesi chi deve attuarla, anche sulla scorta dei suggerimenti ricevuti da chi vi ha partecipato, abbandona il terreno di gioco.
Ma l’elemento più inquietante sta nel fatto che la razionalizzazione della spesa e il processo di digitalizzazione sono due mission che non sono state raggiunte in passato non certo perché mancassero le idee (su questo gli italiani sono imbattibili) ma perché a mancare è stata l’attuazione.
Tutto sommato, la popolarità di cui gode il Governo Renzi, tanto nei sondaggi quanto nelle opinioni della classe dirigente, è almeno in parte legata a un mix senza precedenti tra due percezioni diffuse, un lungo orizzonte temporale e una volontà di cambiamento reale. Ma se poi nei capitoli di policy dove meglio si può mettere a frutto questo mix che costituisce la più apprezzata novità del Governo Renzi si assiste a un turbinio di nomi e di governance allora la preoccupazione che si stia sprecando una grande opportunità diviene molto alta.
E’ vero infatti che nessuno è indispensabile, come ha ricordato proprio Renzi in estate commentando le ennesime voci di dimissioni di Cottarelli (che poi sono giunte ufficilamente solo alcuni mesi dopo), ma l’eccessivo turnover è un metodo di gestione delle risorse umane inefficiente nel Governo italiano così come in ogni altra organizzazione.
L’analisi integrale si può leggere qui