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Vi racconto la campagna poco democratica di Hillary Clinton. Parla Pamela Harris

Domenica scorsa Hillary Rodham Clinton ha annunciato ufficialmente con un video l’avvio alla campagna per ottenere la nomination democratica e, poi, per conquistare la Casa Bianca l’8 novembre 2016.

Chi saranno i suoi avversari (e i suoi nemici) nel partito e sul fronte repubblicano? Quale il suo profilo politico e di programma? Quali i suoi punti di forza e debolezza?

Ecco alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con Pamela Harris, formatasi a Berkeley e alla Harvard Law School, oggi Associate Dean of Academics e docente di diritto presso la John Cabot University di Roma, dove insegna teoria politica, diritto internazionale, diritto costituzionale e politica americana.

Professoressa Harris, la politica americana scalda i motori per le prossime presidenziali. Il primo nome tra i democratici è quello di Hillary Clinton.

Sì, la sua discesa in campo era attesa da tempo, ma devo ammettere che il suo video mi ha lasciata perplessa. Sembrava una pubblicità, più che un annuncio. Inoltre lei compare solo alla fine. Sembra proprio un modo per distogliere l’attenzione dalla sua persona.

Come mai?

Credo che la Clinton abbia talmente tanta esperienza e storia alle spalle che sia troppo facile non avere fiducia in lei. Sono in parte punti di forza, ma è troppo semplice non vederla come quella campionessa del popolo che si auto definisce. La gente quando la guarda non pensa al futuro, ma al passato.

Che differenze scorge rispetto alla campagna del 2008?

A differenza di Obama, che puntava più a sinistra, la Clinton sembra mirare a una platea più larga. Si intuisce dal video, che rispolvera il luogo comune che negli Usa non esistano poveri, ma solo una classe media. Nel filmato non c’è un impiegato pubblico, un sindacalista: strizza invece l’occhio a commercianti, piccoli e medi imprenditori, mercato. Temi decisamente meno liberal.

Chi può farle concorrenza tra i democratici?

Al momento nessuno. L’unica a poterla impensierire sarebbe stata forse Elizabeth Warren, ma ha detto più volte di non volersi candidare. Vedremo cosa accadrà nei prossimi mesi in relazione ad altre candidature, ma non credo che spunterà all’orizzonte un nuovo Barack Obama.

Per dirla tutta, a differenza di Obama la Clinton è molto meno amata. Nel suo stesso partito c’è chi – come il senatore Charles Schumer – non si fa problemi a definirla una persona politicamente opaca.

E a dire il vero non è il solo. Lei, più di altri in questo momento, ricorda molto alcune caratteristiche di machiavellismo politico e sofisticazione del potere che si riscontrano in serie molto amate, come House of Cards. Hillary contro tutti, insomma.

Meno scontato, invece, il fronte repubblicano.

Nel Grand Old Party abbiamo diversi nomi che possono aspirare alla leadership e che si contenderanno la nomination in una battaglia senza esclusione di colpi. Tutti proveranno a risultare i più vicini ai temi che interessano il loro elettorato, come la riduzione del controllo pubblico sul mercato, per fare un esempio.

Chi vede come favorito in questo schieramento?

Tra i nomi circolati fino ad ora il meno papabile è senz’altro Ted Cruz. Troppo estremo. Tra gli outsider anche Rand Paul e Scott Walker. Più possibilità invece per Jeb Bush e Marco Rubio. Il primo non ha bisogno di presentazioni: viene da una famiglia potente, con una lunga tradizione di governo. Nel suo partito è considerato uno dei più moderati ed è un governatore. Il secondo, invece, è giovane, in ascesa e proviene da uno swing State come la Florida. Inoltre è di origini ispaniche e questo gli consente di essere guardato con favore anche da quella fascia di cittadini che col tempo si è sentita sempre più distante dalle politiche sull’immigrazione del Partito repubblicano.

Pensa che, dopo due amministrazioni democratiche di fila, negli americani prevarrà la voglia di cambiare?

Non ci giurerei, perché non credo che stiano percependo l’operato dell’esecutivo federale come dipendente dalla semplice volontà dell’amministrazione di Obama. Con un governo diviso come quello attuale, la responsabilità per la paralisi attuale viene attribuita anche al Congresso a maggioranza repubblicana.

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