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A mente fredda su quegli anni (’90)

La discussione sugli anni Novanta finora è oscillata tra la lettura riduttiva ed efficientista (il problema era la classe politica e l’organizzazione tecnica dei ceti dirigenti) e quella nostalgica (gli anni precedenti erano nientemeno che “l’età dell’oro”). È giunto il momento di cambiare registro e interrogarsi sui fenomeni di fondo che attraversano quegli anni, su quel mutamento culturale di lungo periodo – venuto a maturazione in modo traumatico all’inizio di quel decennio – che allora comincia a mettere in crisi tutti i tentativi di ingessare le società dentro schemi politici assoluti, totalitarismi o democrazie élitarie/di ceto che fossero.

Una seria riflessione sugli anni Novanta deve partire dal decennio precedente, da quegli anni Ottanta che sviluppano i fattori di cambiamento culturale e sociale, e al tempo stesso accumulano il ritardo di comprensione da parte della classe politica. È allora che si sono posti i nodi gordiani del rapporto società-politica in Italia. Questioni irrisolte non solo per insufficienze della classe politica, ma anche per il mancato apporto degli intellettuali, che ancora in quella fase si cullano nell’idea di essere “ceto” detentore del monopolio del sapere. Il crollo del Muro di Berlino nel 1989 mette a nudo in modo emblematico l’inadeguata lettura dei fenomeni socio-culturali. Mentre tutto cambia, mentre crolla il concetto gramsciano di egemonia, l’idea del sindacato-classe, la famiglia come “istituzione”, Ciriaco De Mita e Bettino Craxi si sfidano a duello su un ring di secoli passati, convinti di avere per sempre il monopolio della politica e di poter “meccanicamente” guadagnare dalla sconfitta dell’avversario comunista.

Anche chi, nel campo cattolico, cerca di “scomporre per ricomporre” il partito di maggioranza relativa, in realtà risulta vittima della stessa illusione di manipolare una società invece sempre più desiderosa di spazi di autogoverno. Lo scoppio dello scandalo “Mani pulite” viene interpretato quasi unanimemente in quella fase come vicenda giudiziaria che investe la sola “vecchia” classe politica (o una sua parte), non come episodio del più ampio movimento che ha come obiettivo la pretesa stessa alla rappresentanza democratica in una società post-industriale. Istanze che vent’anni dopo ancora pulsano nel movimentismo di Beppe Grillo, ma che hanno radice in quell’equivoco irrisolto.

Un altro tratto che segna quegli anni è il tentativo di accelerare in senso efficientista e decisionista l’impasse democratica: le riforme costituzionali pensate separando astrattamente prima e seconda parte della Carta del ‘48; l’idea di cambiare interpreti del monopolio politico (imprenditori e tecnici piuttosto che parlamentari), senza interrogarsi sul senso di quel monopolio; il refrain secondo cui, a destra e a sinistra, si vuole cambiare il Paese, senza instillare questa volontà ai cittadini, senza nemmeno pensare ad affidare a loro il processo. E oggi come ieri, a chi alza i toni per costringere la politica a fare i conti con i propri limiti (la “rottamazione” di Renzi, in questo, mi appare in continuità con le “picconate” di Cossiga) si oppone una diffusa reazione conservatrice. Perché la politica, nel frattempo, nel vuoto di risposte e ridisegni culturali di quegli anni, si è ingessata, ha moltiplicato i livelli di governo invece di ridurli, creando sempre nuove occasioni di corruzione, e ha lasciato che interi settori vitali (come la scuola) si adagiassero su modelli ottocenteschi.

La fine dell’Iri è un altro evento caratteristico del clima politico-economico degli anni Novanta. Con le decisioni prese agli inizi di quel decennio prevale certamente la pressione esterna a liberalizzare e a svendere, talora a privatizzare senza liberalizzare, dunque senza accrescere la concorrenza e ridurre i prezzi per i consumatori. Settori di alto livello e propulsivi in mano pubblica vengono dunque inopinatamente smantellati, anche se non va invocata la malafede o un qualche disegno complottistico. Semplicemente, come in altri campi, non c’è l’intelligenza politica di comprendere che si dovevano certo abolire gli aiuti di Stato, ma che andava trovata una compensazione a livello europeo, per resistere su quella scala alla concorrenza dei Paesi emergenti.

Beninteso, questo non è stato e non è un problema solo italiano. L’incomprensione delle dinamiche economiche reali è presente a tutti i livelli in Europa, dove da sempre ci si divide sulle questioni di finanza pubblica senza chiedersi che tipo di sistema produttivo uscirà dalla fase trasformativa in corso. È vero, rispetto ad altri Paesi europei noi abbiamo storicamente uno Stato meno forte, ma abbiamo un vantaggio che è nella posizione geografica, che ci proietta nel Mediterraneo. Questo è l’unico grande progetto che abbiamo, perché nel futuro della logistica mondiale in particolare il nostro Mezzogiorno si colloca al centro dei nuovi flussi che vengono dall’Asia.

Anche qui pesano gli anni Novanta con la loro ventata “nordista”, che spinge quasi tutti gli attori politici (perfino la Dc nella sua ultima fase) a rifugiarsi nel territorialismo delle aree più ricche e al tempo stesso spaventate dalla concorrenza internazionale. Ma l’abbandono del sud a se stesso e alla degenerazione localistica e clientelare della Cassa del Mezzogiorno ha radici più lontane, comincia alla fine degli anni Settanta, quando si esaurisce il progetto lungimirante dei primi architetti dell’intervento straordinario, quando cioè l’Italia nel suo complesso raggiunge lo status di democrazia a economia matura.

Da una parte, in piccolo, Lega nord con la sua pretesa di rappresentare un nord che in realtà non è per nulla unitario; dall’altra più in grande Berlusconi, con la sua politica estera fatta di relazioni bilaterali (Russia, Turchia, ecc.) ma priva di un disegno coerente e con l’incapacità di mantenere il rapporto con intellettuali di spicco come Giuliano Urbani, Lucio Colletti e Domenico Fisichella: due testimonianze di un fallimento strategico-politico che cova in quegli anni e si trascina fino a oggi. Negli anni Novanta, insomma, prosegue e si aggrava l’incapacità, già emersa nel decennio precedente, di dare una testa politica intelligente agli interessi nazionali fondamentali, capaci di far fare all’Italia il passo successivo a quello dell’industrializzazione postbellica, e di riposizionarla da par suo nel mondo globalizzato.


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