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Perché l’attuale D’Alema meridionalista mi sembra troppo anti renziano

Massimo D’Alema vuole rilanciare le complesse questioni del Mezzogiorno all’attenzione dell’intero Paese? E sia, ma, a nostro avviso, a una sola imprescindibile condizione: e cioè che il Meridione venga riproposto più come insieme di grandi risorse e convenienze per la sua crescita, che non come coacervo di problemi sinora irrisolti.  E questo, non per ignorare le gravi criticità esistenti, ma per rendere percepibile agli Italiani l’esistenza nelle regioni meridionali anche di forti elementi di dinamismo che, se rafforzati, potrebbero aiutare l’intera economia nazionale a crescere a ritmi ancor più sostenuti e risolvere alcuni gravi problemi occupazionali esistenti in esse. E per cortesia la si smetta di parlare dell’industria nel Sud solo come di un incipiente deserto di fabbriche chiuse e disoccupazione di massa.

Presentando a Bari il primo numero del 2015 della rivista della Fondazione Italiani europei dedicato alla crisi del Mezzogiorno, Massimo D’Alema nei giorni scorsi ha sottolineato fra l’altro la necessità: a) che vi sia un forte e rapido ritorno delle problematiche del Meridione all’attenzione nazionale; b) che le Istituzioni locali facciano fronte comune per riaffermare le loro esigenze all’attenzione di un Governo che, a suo dire, starebbe di fatto penalizzando le regioni meridionali; c) che un Ministro per il Mezzogiorno sia comunque utile non solo per gestire i fondi comunitari, ma anche per intervenire sugli altri programmi di spesa del Paese, facendovi emergere le esigenze del Sud: d) che in ogni caso bisognerà compiervi delle scelte ben precise,  se si vorrà corrispondere efficacemente ad un rinnovato interesse del Paese verso le sue aree meridionali.

Le istanze sollevate dall’autorevole uomo politico in linea di massima sarebbero condivisibili, ma devono aiutare – come detto in precedenza – il Paese a comprendere le grandi risorse di cui il Sud dispone.

Dall’acciaio all’estrazione e raffinazione petrolifera, dalla farmaceutica all’energia, dall’automotive all’aerospazio, dal tac all’agroalimentare, dall’Ict alla navalmeccanica – tutti comparti presidiati da grandi gruppi italiani ed esteri e da nuclei robusti di Pmi meridionali – l’industria del Mezzogiorno dispiega una capacità produttiva che da anni ormai ha assunto valenza strategica per tutta l’Italia.

Lo si vorrà ribadire finalmente – battendosi per difendere e irrobustire ulteriormente questo apparato di produzione – o, al contrario, si continuerà con la ormai stantia raffigurazione di un imminente deserto industriale? E perché mai allora il Paese dovrebbe interessarsi a rigenerare questo incipiente cimitero, in una fase in cui peraltro le risorse pubbliche per nuovi interventi di politica economica sono difficilmente reperibili alla luce dei pesanti vincoli di bilancio imposti dalla UE? Su questa necessaria e diversa rappresentazione del Sud sarebbe auspicabile che Massimo D’Alema – cui certo non è ignota la realtà industriale del Mezzogiorno – dica una parola chiara, prendendo le distanze da visioni che peraltro, e per fortuna, sono lontane dalla realtà.

E al Governo allora non si potrà certo negare l’impegno sinora profuso e i risultati conseguiti per l’Ilva a Taranto, per il rilancio di Termini Imerese e dell’area dell’ex Irisbus in Campania, per l’ammodernamento della raffineria di Gela, per l’accelerazione delle attività estrattive in Basilicata e Sicilia, per la riapertura di tanti cantieri con lo Sblocca Italia, per la realizzazione del progetto Tempa Rossa a Taranto, etc.

E un’altra chiara presa di posizione bisognerà attendersi da D’Alema sulle privatizzazioni sinora avviate dal Governo Renzi – come ad esempio quella dell’AnsaldoBreda che ha 3 siti di rilevanti dimensioni a Napoli, Reggio Calabria e Palermo ed è stata venduta ai giapponesi dell’Hitachi – per comprendere se esse contribuiscano a rinsaldare l’industria nel Sud o, al contrario, finiscano col creare le condizioni per la futura dismissione di pezzi rilevanti del manifatturiero meridionale.

E quando D’Alema afferma che le Istituzioni locali devono fare fronte comune per difendere gli interessi del Mezzogiorno, certamente non gli sfugge quanto sia difficile che ciò avvenga, se è vero (purtroppo) che esistono divisioni profonde di interessi fra le diverse regioni e all’interno delle stesse: dalla Campania con la persistente e rivendicata diversità del Salernitano rispetto all’area partenopea, alla Puglia con gli altrettanto netti distinguo della Capitanata a Nord e del Salento a Sud nei confronti della città metropolitana di Bari; dalla storica contrapposizione in Sicilia delle province orientali a quelle occidentali dell’isola, alla Sardegna in cui il Sud industriale si contrappone al Nord più vocato al turismo in Costa Smeralda.

E non aggiungiamo altro sulle diffuse incapacità di settori delle classi dirigenti meridionali nel farsi promotrici di sviluppo, utilizzando al meglio i fondi comunitari, perché se ne è parlato tanto negli ultimi anni. Allora, se un rilancio della Questione meridionale è auspicabile che avvenga, è altrettanto auspicabile che l’autorevolezza di D’Alema concorra a riproporla all’attenzione del Paese in termini veramente nuovi e ben più avanzati di quanto non faccia qualche economista locale, preoccupato solo di sollecitare sempre nuove risorse per il Sud, senza poi verificare il loro effettivo impiego in tempi non biblici, le loro procedure di spesa spesso defatiganti, e il loro reale impatto sull’occupazione.

La riproposizione della Questione meridionale insomma dovrebbe evitare, a nostro sommesso avviso, il rischio di apparire solo come occasione per fare la fronda all’attuale gruppo dirigente del Partito democratico. Non crediamo che tutto ciò interessi molto all’opinione pubblica italiana, se non è accompagnato da una visione per tanti aspetti inedita ma reale delle tante novità positive esistenti nel Mezzogiorno. E D’Alema ha certamente l’esperienza, lo spessore culturale e l’autorevolezza politica per dare dell’Italia del Sud una rappresentazione molto diversa e meno disperante di quella pervicacemente coltivata sino ad oggi da una certa vulgata meridionalista.

Federico Pirro  (Università di Bari – Centro Studi Confindustria Puglia)


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