La prima visita dell’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi alla raffineria di Taranto nell’ambito delle manifestazioni del “Safety road show” assume un’importanza che va ben al di là della pur significativa ed apprezzata constatazione del drastico abbattimento degli infortuni al suo interno.
Visitare il sito ionico, oggetto negli ultimi anni di attacchi da parte di settori del movimento ambientalista locale culminati nell’opposizione al progetto Tempa Rossa – per il quale l’Eni è impegnata nel supporto logistico alle imprese guidate dalla Total – significa richiamare l’attenzione sulla rilevanza strategica che questa raffineria ricopre tuttora nella scacchiera degli impianti dell’Eni in Italia, fondata sul suo legame tramite l’oleodotto Monte Alpi con i pozzi della Val d’Agri e il suo Centro di primo trattamento del greggio che è localizzato a Viggiano.
E se pure il sito di raffinazione del capoluogo ionico non è per capacità di lavorazione uno dei maggiori del Mezzogiorno e del Paese, con conseguente incidenza sulla redditività dei suoi impianti, ha dovuto subire dapprima l’ostilità al raddoppio della sua capacità – che avrebbe comportato anche la costruzione di un oleodotto verso Brindisi per trasportare alla Versalis ben più ecologicamente che non via mare la virgin nafta necessaria per produrvi etilene – e poi la mancata autorizzazione alla riconversione a metano della sua centrale elettrica, tuttora ad olio combustibile. Ciononostante l’Eni ha continuato ad occuparvi 460 addetti diretti (con almeno altri 500 nell’indotto), ad investirvi risorse per manutenzioni ordinarie, a promuovervi lo scorso anno 8mila ore di formazione per elevarvi la sicurezza per dipendenti e contrattisti, nel mentre si accinge a collaborare per la realizzazione del progetto Tempa Rossa.
Riflettano a fondo su questi elementi tutti coloro – nelle Istituzioni e fra i cittadini – che da anni sono irriducibilmente ostili ad alcune grandi aziende presenti a Taranto con conseguenze che hanno già portato al pesante ridimensionamento della Cementir, al già ricordato blocco del raddoppio della raffineria, e al fortissimo rallentamento del progetto Tempa Rossa, nel contesto più ampio delle vicende estremamente complesse del Siderurgico dell’Ilva.
Una grande fabbrica quest’ultima in cui, se da un lato i massicci lavori in corso di adeguamento all’Aia dovranno impedire che si ripetano altre tragedie come quella che ha colpito il povero Alessandro Morricella, dall’altro bisognerà portare innanzi con determinazione e con il pieno coinvolgimento di lavoratori, tecnici e dirigenti l’ambizioso progetto di rilancio industriale e strategico illustrato di recente ai Sindacati, finalizzato ad un riposizionamento competitivo del sito nel mercato italiano e su quelli internazionali.
In una fase in cui Taranto sgomenta assiste con la messa in liquidazione della TCT – le cui cause più remote sarebbero forse da rinvenirsi nel mancato rispetto di tutto quanto previsto nell’atto di concessione del 2001 – al dramma occupazionale dei suoi 540 lavoratori, al momento senza cassa integrazione; e nel momento in cui si profilano una pesante ristrutturazione occupazionale e salariale alla Teleperformance ed esuberi all’Ipercoop e ad Auchan – nel mentre la vertenza del sito Marcegaglia che sembrava risolta torna in altomare per la desistenza della Otlec che avrebbe dovuto rilevarne impianti e dipendenti – tutti i partiti, le Istituzioni, i Sindacati, il mondo della ricerca, gli istituti di credito, le associazioni della società civile e la stragrande maggioranza dei cittadini che respingono ogni proposito di deindustrializzazione dovrebbero stringersi in difesa dei presidi aziendali esistenti, da riqualificare con i necessari, radicali interventi di ambientalizzazione, ma da salvaguardare nelle loro capacità produttive e nei loro livelli occupazionali, ispirandosi in tal modo all’impegno quotidiano in difesa del lavoro, dell’ambiente e della salute dell’Arcivescovo Monsignor Santoro, encomiabile ed amato pastore della comunità locale.
C’è qualcuno in città che vorrebbe forse la catastrofe della sua economia e della sua società civile? E nessuno si illuda che, in caso di collasso di tutta l’industria locale, ci siano le risorse in Italia o a Bruxelles per far vivere Taranto di assistenza pubblica per anni. Chi lo pensasse o, peggio, lo auspicasse, sarebbe semplicemente fuori dal mondo.
La città, la sua provincia, la Puglia e l’intero Paese non possono permettersi in alcun modo il default del sistema manifatturiero ed infrastrutturale del Polo industriale ionico. Non appena nel primo trimestre dell’anno si è registrata in Puglia una flessione del 56,6% nell’esportazione di ‘metalli di base e prodotti in metallo’ – nella stragrande maggioranza dell’Ilva – la regione ha registrato una flessione del 5,5% del suo export globale, collocandosi al terz’ultimo posto, prima di Marche e Sicilia, nella graduatoria delle regioni italiane per flessioni dell’export.
Insomma, non c’è alternativa al rilancio pienamente ecosostenibile delle fabbriche di Taranto, in logiche di assoluta sicurezza per i loro addetti. L’encomiabile esempio della raffineria dell’Eni lo dimostra.