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L’Iri può essere un modello per moderne politiche industriali?

Guardare alle politiche industriali promosse dai paesi occidentali più avanzati o puntare sull’allargamento del ruolo di Cassa depositi e prestiti?

Le ragioni di un’iniziativa editoriale

È l’interrogativo cui l’Italia dovrà rispondere in tempi brevi per un efficace cambiamento di rotta rispetto a una prolungata stagnazione produttiva.

Un tema che ha animato la presentazione giovedì scorso, presso la Scuola nazionale dell’amministrazione, del 6° volume della “Storia dell’Iri” scritta dall’economista e a lungo vice-direttore della Banca d’Italia Pierluigi Ciocca.

“Una risposta ai limiti del capitalismo nazionale”

La creazione dell’Istituto di ricostruzione industriale, ha ricordato la docente di Sociologia del Diritto all’Università di Cagliari Maria Rosaria Ferrarese, fu fondamentale per favorire la maturazione del capitalismo in un’Italia rurale e l’affermazione di un assetto bancario come bene pubblico.

Ma fu soprattutto, ha rimarcato il professore di Economia politica all’Università “Tor Vergata di Roma” e presidente della Sna Giovanni Tria, una risposta per supplire alle carenze e ritardi dell’establishment privato del nostro paese.

“Lacune – aggiunge lo studioso – riscontrate nei suoi eredi, che nei primi anni Novanta rilevarono le aziende pubbliche con l’avvio del processo illusorio di privatizzazioni. Figure che mancavano di visione industriale e di capitali finanziari adeguati. E privilegiarono la ricerca di rendite soprattutto nel comparto delle telecomunicazioni”.

“Emblema dell’economia mista”

A rendersi conto di una simile arretratezza fu il professore emerito di Diritto amministrativo Giuseppe Guarino.

L’Iri, ha racconta Guarino nel corso del seminario, era famosa nel mondo come simbolo di un’economia mista che aveva fornito grandi prestazioni per lo sviluppo economico.

“Le sue iniziative, al contrario quanto accadeva per Eni, Enel e Montedison, erano frutto di direttive dell’esecutivo. E non venivano messe in campo tramite mezzi occulti, ma applicate con assoluta onestà come rivelarono i risultati di grande valore industriale”.

“Imprenditori privi di coraggio”

Tutto ciò, ha precisato l’ex ministro, fu cancellato in breve tempo a causa dell’entrata in vigore dell’Articolo 110 del Trattato di Maastricht: “Testo che prefigurava l’adeguamento della realtà produttiva italiana e europea all’economia mondiale, fondata sull’abbattimento delle frontiere doganali e delle restrizioni sul commercio internazionale”.

Un fenomeno che richiedeva grandi soggetti industriali, e imponeva l’allargamento delle dimensioni delle imprese del nostro paese. Per realizzare tale processo il giurista, all’epoca responsabile dell’Industria nel governo Amato, pose le premesse per la privatizzazione della galassia Iri attraverso la trasformazione dell’organismo in società per azioni. E convocò i principali capitalisti privati per prospettare loro le opportunità che venivano aperte.

Tentativo che si arenò a causa dei “seri ostacoli incontrati nel mondo politico, nel panorama imprenditoriale retrogrado, nell’universo bancario e nella Mediobanca allora guidata da Enrico Cuccia”.

La genesi dell’Iri

L’Iri, ha evidenziato l’ex leader del Partito repubblicano Giorgio La Malfa, ha rappresentato una componente molto rilevante del “miracolo economico” e della proiezione industriale del nostro paese nel mondo. “Molti comparti strategici come la meccanica, l’elettronica, la cantieristica e la siderugia hanno conosciuto uno sviluppo enorme grazie a tale istituto”.

Realtà, ha osservato l’ex parlamentare, che comprendeva e coordinava una galassia produttiva anche se non era stato costituita per rilanciare le industrie: “La sua nascita era stata promossa per salvare le banche che avevano erogato enormi prestiti e acquisito partecipazioni nelle grandi aziende, e non riuscivano a rientrare in attivo per la crisi dei complessi imprenditoriali”.

L’intervento dell’organismo pubblico – prosegue l’ex ministro – avrebbe dovuto essere temporaneo, e favorire in tempi ragionevoli il ritorno di quei portafogli nelle mani dei privati: “Che però non possedevano le risorse adeguate per rientrarne in possesso”.

Le ragioni di un declino

La “spinta propulsiva” dell’Iri, ha spiegato l’ex segretario del Pri, terminò nei primi anni del secondo dopoguerra: “L’avvento di Amintore Fanfani alla guida della Democrazia cristiana e del governo al posto di Alcide De Gasperi portò alla trasformazione dell’istituto da meccanismo di promozione industriale a strumento in mano al ceto politico per la ricerca e il rafforzamento del consenso”.

Fenomeno proseguito fino agli anni Novanta e che, a giudizio dello storico e socialista Luciano Cafagna, non era emerso nel regime fascista: “Capace di valorizzare figure come gli ‘architetti dell’Iri’ Alberto Beneduce e Donato Menichella”.

Per questa ragione La Malfa è convinto che l’intervento pubblico nell’economia – “più che mai necessario nell’Italia stretta nella morsa dell’Euro-zona” – non possa modellarsi su una simile esperienza di controllo diretto delle industrie”.

“Performance lusinghiere”

Ragionamento che trova consonanza nelle parole di Luigi Paganetto, professore di Economia europea e internazionale all’Università “Tor Vergata” di Roma: “L’Iri fu decisivo nell’evitare l’affermazione della tendenza ideologica corporativa del regime fascista. Mentre non arginò tali spinte nella stagione repubblicana, fondata su uno Stato regista e promotore di politiche industriali virtuose”.

Uno Stato, afferma lo studioso, che favorì per molti anni una strategia espansiva di investimenti pubblici con riflessi positivi in termini di produttività. “Basti pensare che la metà della spesa per ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica dell’Italia di oggi ha le proprie radici nell’esperienza delle Partecipazioni statali. Formativa di un management di alto livello e prestigio internazionale”.

Tuttavia, rileva l’economista, l’Istituto di ricostruzione industriale si è mostrato incapace di allocare risorse e attività produttive verso settori innovativi e popolari: “Requisiti per un’autentica ripresa”.

“È necessario un cervello pubblico per la rinascita economica”

Ciò non rimuove – ha concluso Pierluigi Ciocca – l’esigenza di un “motore pubblico” di sviluppo e addestramento di capitale umano per rompere la stagnazione produttiva dell’Italia: “Specie considerando la mancanza di grandi imprese private nelle frontiere economiche di avanguardia”.


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