Le banche italiane guardano al gasdotto russo-turco, il Turkstream. L’interesse lo ha comunicato qualche giorno fa lo stesso plenipotenziario di Intesa Sanpaolo in Russia, Antonio Fallico. Per il gruppo italiano, il tubo che Putin ha voluto dopo l’abbandono del SouthStream rappresenta un progetto interessante, un investimento da finanziare. Intesa aveva già supportato altre due gasdotti russi: il Blue Stream e il Nord Stream.
Perché ancora soldi ai progetti di espansione del Cremlino? Pur rispettando il quadro giuridico delle sanzioni, le banche italiane hanno continuato ad alimentare i business russi, quelli del petrolio in primis: 350 milioni di euro sono andati quattro mesi fa a Gazprom, sulla base di un accordo di partnership siglato da Gaetano Miccichè, dg di Intesa, e il vicepresidente del gruppo petrolifero russo, Andrey Kruglov. Altri 390 milioni erano arrivati da Unicredit lo scorso dicembre. Da pochi giorni, un altra controllata di Piazza Cordusio, Bank Austria AG, ha concesso un ulteriore prestito di 300 milioni a un tasso al di sotto del quattro per cento.
Come già ricordato dai rappresentanti di Intesa, le tensioni geopolitiche del 2014 sfociate nelle sanzioni e conseguenti contro sanzioni, hanno generato un arretramento pesante delle bilance commerciali Europa-Russia e Italia-Russia. In un solo anno, nel nostro Paese, si sono persi 5,3 miliardi di euro di interscambio, con gravi ripercussioni sulle aziende italiane che avevano visto nella Federazione Russa uno dei Paesi più strategici per lo sviluppo del business.
Numeri però che non collimano siano con le analisi della Banca d’Italia, come si può leggere nella relazione annuale pubblicata nel corso dell’ultima assemblea dei soci dell’Istituto centrale governato da Ignazio Visco, sia dalle previsioni comunicate dal viceministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, la scorsa settimana.
Oltre alla fortissima interdipendenza economica su moltissimi settori e l’esposizione sul mercato russo, pesano però anche gli intrecci societari. Il successo dell’Opa Pirelli dei cinesi di Chemchina (dentro il veicolo di Tronchetti, Camfin, ci sono sia Intesa che Unicredit), passa anche per l’accondiscendenza di Rosneft, l’altra società russa a controllo statale, dicono alcuni analisti di Borsa.
L’appoggio all’operazione potrebbe richiedere, come contropartita, un aiuto finanziario su progetti come il TurkishStream. I costi del gasdotto sono stimati a 16 miliardi di euro dal ministro dell’Energia turco, Taner Yildiz. Intesa sfrutta anche un relativo disimpegno delle banche tedesche. Deutsche Bank si è detta per ora non interessata al gasdotto e le principali società che fanno tubi in Germania, Europipe e Salzgitter si sono buttati mani e piedi a finire il Tap. Mentre, al contrario, Saipem, dopo essere stata costretta ad abbandonare il SouthStream, è stata già ingaggiata per lavorare al Turkstream.
La Grecia (sull’orlo del default) al di là di un sostegno politico, non sembra essere in grado al momento di partecipare concretamente alla costruzione dell’opera. Per adesso Atene non è stata in grado di fornire garanzie sulla formazione della società in joint venture con i russi. La società del gas greca, la Depa, è parecchio sottocapitalizzata e Tsipras, sino ad ora, non è riuscito a venderla. Ankara è a caccia di capitali. I documenti vincolanti siglati, obbligano Erdogan a muoversi. Anche in questo caso una possibile sponda potrebbe essere italiana visto che, per il Ceo di Unicredit, Federico Ghizzoni, la Turchia sarà il prossimo mercato di espansione. Ma come ricordano da Bruxelles, una cosa sono gli annunci, altra cosa è la realizzazione del gasdotto.
Insomma, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, chissà se le banche italiane saranno in grado di navigarlo.