L’Italia può giocare un ruolo credibile per lo sviluppo economico-sociale di un’Euro-zona priva di bussola, in crisi di identità e reduce dal voto dirompente della Grecia?
“Responsabilità incancellabili”
L’interrogativo è stato affrontato ieri nel corso della presentazione presso l’Istituto Luigi Sturzo di Roma del 9° Rapporto sull’Economia reale, redatto dall’omonimo pensatoio animato da Mario Baldassarri. Il quale ricorda la duplice responsabilità all’origine della crisi ellenica: “Le scelte dei governi di Atene che truccarono i conti pubblici per aderire all’area della valuta comune, e il via libera concesso dalle cancellerie del Vecchio Continente senza esercitare i controlli necessari”.
“Nessuna estromissione della Grecia dall’Euro-zona”
La vicenda greca, ha rilevato l’ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, è lo specchio di un Vecchio Continente “piramidale”: “Nel quale un paese leader come la Germania prende le decisioni privilegiando i propri interessi senza tenere conto di quelli generali. Dove le istituzioni comunitarie contano sempre meno e mancano autentiche alternative europeiste”.
Tuttavia, riguardo al destino di Atene l’ex leader dell’Ulivo e dell’Unione ritiene che il quadro mondiale e l’interesse del governo di Pechino a una stabilità dell’Euro-zona imporranno a Bruxelles e ad Angela Merkel di non espellere nessuno: “Pertanto si procederà per compromessi e aggiustamenti progressivi”.
“Superare gli stupidi parametri di Maastricht”
L’ex vice-ministro dell’Economia, Mario Baldassarri, propugna da almeno 7 anni un “salto politico” delle istituzioni comunitarie verso gli Stati Uniti d’Europa: “Fondati su un ‘Trattato di Maastricht 2’ meno stupido e più rigoroso, nel quale il livello della spesa pubblica e del prelievo fiscale costituiscono fattori più rilevanti rispetto a deficit e debito ai fini dell’espansione economica. E su una Banca centrale trasformata in prestatrice di ultima istanza”.
A suo avviso il rigore e pareggio di bilancio devono riferirsi esclusivamente alle uscite correnti e non agli investimenti pubblici produttivi, passati nel nostro paese dai 60 miliardi dell’inizio del millennio ai 30 miliardi di oggi. Per tale ragione propone di permettere agli Stati che accumulano l’1 per cento di avanzo corrente di utilizzare il 2 per cento del Prodotto interno lordo in iniziative di “leva economica”.
La scelta compiuta dalla Grecia, rileva, dovrebbe rappresentare l’occasione per ripensare e ridiscutere le linee strategiche delle politiche europee.
Le colpe epocali della seconda Repubblica
La ricerca realizzata dal centro studi “Economia Reale”, articolata in un’analisi relativa al periodo 2001-2014 e in una previsione sugli anni 2015-2020, fornisce un quadro impietoso della seconda Repubblica. Stagione che vede una crescita esponenziale della spesa pubblica ordinaria, un calo costante degli investimenti produttivi, un aumento continuo della pressione fiscale.
Emerge una responsabilità storica di tutte le classi politiche alternatesi al governo nell’aver puntualmente evitato le riforme radicali che avrebbero capovolto il trend economico, occupazionale, finanziario, tributario del nostro paese: tagli rigorosi e lungimiranti delle uscite, lotta alle ruberie e agli sprechi legati all’acquisto di forniture e beni a fondo perduto, battaglia seria contro l’evasione e la corruzione.
Il costo complessivo dei mancati interventi strutturali – frenati dalla forza prevalente degli interessi organizzati in corporazioni – ammonta a oltre 240 miliardi di PIL, il 17 per cento del totale. Tutto ciò accompagnato da un aggravamento dei parametri di bilancio e dall’espansione della montagna del debito pubblico. Senza calcolare le ripercussioni sociali rilevanti, con 1,5 milioni in più di persone prive di lavoro: esattamente la cifra registrata a partire dall’inizio della crisi del 2007.
Le responsabilità dell’Euro-zona
Anni in cui – spiega lo studioso – le autorità Ue hanno commesso l’errore clamoroso di favorire un euro pesante e più forte del dollaro, con effetti nocivi verso la realtà produttiva e la capacità di esportazione dei prodotti del Vecchio Continente.
Ne è derivata una penalizzazione del 10 per cento di Prodotto interno lordo, con riflessi negativi soprattutto per le nazioni leader nel comparto manifatturiero: Germania e Italia.
Per i prossimi 5 anni è prevista una ripresa economica molto fragile, che dovrebbe attestarsi attorno all’1 per cento. Il tasso di persone senza lavoro continuerebbe a mantenersi elevato per ritornare al 10 per cento nel 2020, quando il rapporto debito pubblico-PIL verrebbe stimato al 124 per cento: “Cifra lontana dal rispetto degli ‘stupidi parametri finanziari’ che l’Italia si è impegnata a rispettare”.
Una manovra radicale
Per promuovere una fuoriuscita definitiva dalla crisi anziché dalla pura recessione, Baldassarri propone una Legge di stabilità da 40-50 miliardi di euro.
L’obiettivo prioritario di una riduzione rilevante delle tasse e di un robusto pacchetto di investimenti pubblici è raggiungibile a suo giudizio attraverso un complesso di interventi ben precisi: “L’abbattimento del debito pubblico tramite la costituzione di un fondo che valorizzi e anticipi la vendita del patrimonio immobiliare statale attraverso l’emissione di obbligazioni convertibili in azioni per 100 miliardi nel primo anno. Il taglio di 25 miliardi di euro nei trasferimenti annui a fondo perduto, per orientare le risorse verso il servizio pubblico anziché a vantaggio dei gestori. Una strategia contro l’evasione impositiva sviluppata su controlli incrociati che mettano a confronto il tenore di vita del contribuente con le sue dichiarazioni. E che consentirebbero il recupero di 10 miliardi annui da convogliare verso la riduzione del prelievo tributario”.
L’effetto di queste misure, rimarca l’economista, sarebbe una crescita del 4 per cento complessivo con la creazione di 234 miliardi di euro di Prodotto interno lordo. Le persone con un’attività lavorativa, prosegue, crescerebbero di 700mila unità e il tasso di disoccupazione calerebbe del 7,2 per cento. Altro risultato – osserva – sarebbe l’azzeramento del deficit nel 2017 seguito da un crescente avanzo primario, mentre il debito pubblico scenderebbe al 93,7 per cento nel 2020.
Un ceto politico miope
La ricetta da seguire contempla un coraggio assente nel ceto dirigente italiano. Una classe politica, evidenzia il giornalista e editorialista del Corriere della Sera Sergio Rizzo, proiettata verso le scadenze elettorali di corto respiro e non in grado di affrancarsi dai vincoli e privilegi di lobby e corporazioni.
Così tra il 2001 e il 2011 il calo del PIL pro-capite è corrisposto a un aumento costante della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi soprattutto nel terreno sanitario e burocratico. E è diventata più fitta la selva di regole e metodi di riscossione fiscale – 600 miliardi di euro in accertamenti tributari tuttora da compiere – oltre a quella dei collaudi tecnico-amministrativi.
Un’esperienza emblematica
Protagonista di un tentativo di intervento selettivo sull’apparato statale, nella veste di Commissario per la revisione e riduzione della spesa pubblica tra il 2012 e il 2013, fu Enrico Bondi: “Mi resi conto che nella Pa mancava la logica dei budget annuali con certificazione contabile. Mentre proliferavano le centrali di acquisto di beni e servizi – 170 miliardi di euro annui – autonome e slegate le une dalle altre”.
Riscontrato che lo scostamento rispetto ai costi standard si attestava attorno al 33 per cento medio, Bondi prospettò un taglio dei trasferimenti del 15 per cento senza ridurre i livelli delle prestazioni. Ma l’iniziativa incontrò opposizioni virulente, “come quelle legate a un utilizzo rigoroso dei fondi previsti per la manutenzione e riqualificazione delle strade provinciali”.
Il ricorso dei Radicali
Capitolo nevralgico nelle carenze e nei costi intollerabili per famiglie e realtà produttive è la giustizia. Caratterizzata da tempi interminabili dei processi, enorme arretrato pendente in sede civile e penale, ritardi estenuanti nei risarcimenti e nel recupero delle risorse spettanti ai cittadini.
Lacune che frenano gli investimenti industriali esteri per l’1 per cento del Prodotto interno lordo, e hanno provocato condanne europee e internazionali dell’Italia. Le cui autorità hanno mantenuto spesso un atteggiamento inerte.
Per questo motivo i Radicali hanno promosso con l’avvocato Deborah Cianfanelli un ricorso alla Corte dei Conti per danno erariale provocato dai mancati interventi strutturali dei nostri governi.
La necessaria riforma della Pa
Fenomeno analogo concerne il costo della corruzione, degli sprechi e dell’incompetenza. Che, precisa l’economista dell’Università di Tor Vergata Gustavo Piga, è equivalente a 20 miliardi solo nel campo dell’acquisto di beni e servizi.
Un taglio del 20 per cento di tali risorse, osserva lo studioso, porterebbe a un risparmio rilevante: “Prezioso per realizzare investimenti produttivi e premiare le amministrazioni capaci, senza ricadute negativi dal punto di vista sociale”.
La via maestra è quindi valorizzare le competenze nella razionalizzazione delle stazioni appaltanti, investendo fondi per i migliori dirigenti. E rompendo i rapporti di collusione nella gestione dei lavori pubblici. “Una rivoluzione organizzativa antitetica alla logica della rotazione privilegiata nell’apparato statale del nostro paese”.
“Colpire l’economia illecita”
Riflessioni che riscuotono interesse nei rappresentanti istituzionali presenti alla presentazione del Rapporto e coordinati dal fondatore di Formiche Paolo Messa.
Ad avviso del vice-presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini non è dalla riduzione radicale delle uscite correnti che possiamo attendere l’attuazione di misure per il rilancio dell’economia e degli investimenti produttivi.
La sua ricetta è aggredire l’economia sommersa e illegale legata a corruzione, evasione, elusione e attività criminali: “Un volume d’affari che oscilla attorno ai 200 miliardi di euro”.
Strategie lungimiranti contro l’evasione fiscale
Tuttavia, afferma il magistrato della Corte dei Conti Salvatore Tutino, la lotta all’evasione fiscale è stata storicamente percepita in Italia come la ricerca di un tesoretto salvifico da ridistribuire una tantum anziché come un modello civico. Ne scaturisce un ritardo nell’attività di controllo e riscossione, anche in nome di una malintesa “apertura di credito” verso i contribuenti: “Nel 2014 11 miliardi di tasse sono state dichiarate ma non versate”.
Il paradosso, aggiunge il magistrato contabile, è che a fronte di una rete di strumenti efficaci e tecnologicamente avanzati non si conoscono le cifre esatte della lotta all’evasione fiscale: “Il cui maggior gettito tra il 2011 e il 2014 era stimato in 64 miliardi di euro. Risorse che non sappiamo dove siano finite”.
Per affrontare con efficacia il problema che aggrava la pressione tributaria sui contribuenti onesti e altera la concorrenza economica, bisogna mettere in campo iniziative ulteriori. A delinearle è la responsabile Divisione Finanza pubblica della Banca d’Italia Stefania Zotteri: “Alleggerire obblighi e costi di adempimento per i cittadini, rendere certe e comprensibili le regole, promuovere un rapporto cooperativo tra autorità e contribuenti”.
“Rompere l’isolamento industriale dell’Europa”
L’esigenza di un intervento di ampio respiro delle istituzioni italiane per creare un clima favorevole agli investimenti produttivi è rivendicata anche dall’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi: “Le riforme della burocrazia e della giustizia sono fondamentali per superare i molteplici freni all’intervento di gruppi industriali esteri in comparti strategici del nostro paese”.
Ma le politiche nazionali, rimarca l’ex premier, devono inquadrarsi in un rilancio delle scelte di lungo termine dell’Unione Europea: “Rimasta esclusa dallo sviluppo dei giganti della Rete nordamericani e cinesi, e dalle strategie asiatiche di acquisizione di aziende altamente tecnologiche come Ansaldo e Pirelli”.