Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
Uno spettro si aggira per l’Italia, demonizzato da politici come Rodotà, Bindi e Bertinotti, sindacalisti come Camusso, Barbagallo e Landini, giornalisti come Pansa, Ostellino e De Bortoli: la «deriva autoritaria». Inutile dire chi sia il leader forte che col suo decisionismo sta uccidendo la democrazia: Matteo Renzi, di Rignano sull’Arno, divenuto, con la rottamazione, padrone prima del partito, poi del governo. Senza essere stato eletto dal voto dei cittadini: un usurpatore, dunque. È più facile accusarlo di autoritarismo che discutere le sue iniziative, considerate troppe e troppo personalistiche. Le lamentele vengono da tutte le parti e lui, anziché rifiutarle, ne sembra contento.
Per capire le ragioni di queste deplorazioni basta riferirsi alla nostra storia recente. La democrazia in Italia è nata insieme con la suddivisione del mondo in due blocchi: l’occidente liberaldemocratico e il comunismo totalitario. Ad essi corrispondeva in Italia il «bipartitismo imperfetto»: due grandi partiti antitetici, popolari (non populisti), la Dc occidentale e il Pci sovietico, la prima obbligata al governo, il secondo confinato in una opposizione ripagata da poteri locali e divisione della Torta-Italia.
Dal 1945 agli anni Settanta, questo schema resse. Per il bene dell’Italia. Poi, in tempi di contestazione culturale e sindacale, non fu più utilizzabile. E nel 1989 crollò del tutto. L’instabilità politica, che consentiva ai governi di durare solo 11 mesi, lasciò il campo a leader forti, che a parole difendevano la democrazia, nei fatti ne facevano una variabile della loro volontà di potenza. Questa leaderizzazione era richiesta dal nuovo modo di fare politica, non più basata sul partito di massa, ormai in crisi irreversibile. Era, come aveva previsto Weber nel 1919, una «democrazia del Capo» (Führerdemocratie): non più il laeder emerso dal partito, ma il partito creato dal leader.
Nessun fascismo. La leaderizzazione era imposta dalle nuove forme di comunicazione di massa: televisione, internet, social media, che avevano ibernato i vecchi strumenti della politica (presenza nel territorio, discussione ideologica, correnti, scuole di partito, comizi) e prodotto un teatrone politico, populista e referendario, capace di conquistare il feeling e non di rado l’isteria delle masse. La videopolitica non è sempre negativa, anche se diviene letale quando è lo strumento per difendere interessi privati del leader, convinto che il bene del Paese e l’incremento delle sue company coincidono.
È stato detto, non senza qualche ragione, che gli antenati di Renzi sono Craxi e Berlusconi. Ma occorre in primo luogo rendersi conto che l’enfatizzazione del leader, elemento oggi comune a tutti i paesi democratici, è richiesta dalla crisi della democrazia rappresentativa, lenta, logorroica e inefficiente. Renzi lo ha capito perfettamente ed il suo leaderismo ipertrofico è una risposta allo sfacelo di una democrazia delle parole vuote e della retorica costituzionale. Come è chiaro dalle sue riforme del sistema politico.
Non v’è dubbio che il bipolarismo identico e inutile di Camera-Senato costituisce un freno alla rapidità delle decisioni parlamentari. E senza essere necessario per controllare il potere, tanto è vero che la maggioranza dei paesi europei è monocamerale. Il difetto di Renzi non è stato l’autoritarismo, ma la sua mancanza: il Senato non andava riformato ma abolito. E dopo due pasticci come il Senato della Costituzione e quello già votato in parlamento, ne avremo un terzo, che verrà discusso a settembre, ancora più pasticciato e sterile.
Anche la riforma della legge elettorale è stata voluta da Renzi per accentuare l’efficienza del parlamento e del governo. Ma ora c’è il pericolo dell’ «io ti do ‘na cosa a te, tu mi dai ‘na cosa a me»: per avere più voti per il Senato, il premio di maggioranza della legge elettorale, che per ora va al partito, verrebbe attribuito alla coalizione. Favorendo così i partiti minori e creando instabilità al vincitore: una volta Berlusconi e due volte Prodi caddero proprio per il voto contrario di alleati delle loro coalizioni.
Non è difficile accorgersi che l’accusa a Renzi di essere un leader forte si mostra priva di senso. Magari riuscisse a esserlo, come accade negli Usa, in Gran Bretagna o in Francia. In realtà Matteo ha un carattere forte, ma gestisce un potere debole, condizionato dalle forze privilegiate della vecchia Repubblica, quelle che lo accusano di autoritarismo e nascondono i loro interessi di bottega con la difesa liturgica di una costituzione nata male e vecchia.
Come fanno quelle forze grettamente conservatrici di un sistema politico ormai in tenda all’ossigeno, quello, morto e sepolto, delle «ditte» gestite da una oligarchia scelta per cooptazione. Mentre la situazione attuale, caratterizzata da crisi delle classi sociali e delle loro Grandi Favole ideologiche, da individualismo e frammentazione, da predominio dei mass-media, da pesante condizionamento dell’economia mondiale richiede rafforzamento e personalizzazione del potere. Ciò che dobbiamo temere non è la «deriva autoritaria», ma la mancanza di decisionismo e di efficienza.