No, non siamo proprio alla vigilia dell’Apocalisse del Mezzogiorno come viene raffigurato dalla Svimez nelle sue anticipazioni dell’annuale Rapporto sul Sud, pubblicato poi in autunno. Lo scrivo da consigliere di amministrazione della stessa Svimez in rappresentanza della Regione Puglia, mai chiamato con gli altri componenti dell’organismo amministrativo ad analizzare e valutare preventivamente i dati presentati nelle anticipazioni di luglio. E pensare che in consiglio siedono, fra gli altri, economisti ex ministri come Paolo Baratta e Piero Barucci che pure potrebbero offrire un contributo autorevole alla lettura di quei dati.
Non siano dunque all’apocalisse del Mezzogiorno perché la raffigurazione estremizzata dei suoi problemi – scaturita forse dalla frustrazione degli estensori di sapersi ormai inascoltati da lungo tempo dalle Autorità governative – non corrisponde affatto a quella di una lettura ben più approfondita dell’economia del Sud, dei suoi territori, delle loro effettive dinamiche socioeconomiche, dei loro apparati manifatturieri che non configurano affatto – per chi li conosca personalmente e li studi veramente da vicino o dall’interno – un incipiente cimitero industriale.
Non regge più ormai da anni sotto il profilo interpretativo della reale condizione del Sud la macrovisione della Svimez che lo vede segnato solo da divari – che pure esistono – rispetto al Nord: divari che non possono e non devono tuttavia in alcun modo impedire di cogliere i persistenti segnali di dinamismo produttivo esistenti in tante aree meridionali, come dimostrato dagli accurati studi della SRM del Banco di Napoli del Gruppo Intesa San paolo che da tempo sta mappando sistematicamente i settori industriali più rilevanti del Mezzogiorno (automotive, aerospazio, agroalimentare, tessile-abbigliamento-calzaturiero) con risultati sorprendenti. Quella della SRM è una scuola di pensiero e di analisi ben più feconda e completamente opposta a quella della Svimez che – mi dispiace rilevarlo – ha perso da tempo il contatto con l’economia reale delle regioni meridionali.
Nei dati anticipati ieri l’altro non ci sono i grandi investimenti realizzati, in corso e annunciati negli ultimi anni della Fiat a Pomigliano d’Arco, Melfi e Atessa, dell’Ilva – sì, anche dell’Ilva e proprio a Taranto – dell’Eni a Gela, dell’Alenia Aermacchi in Puglia e in Campania, i 44 contratti di programma sottoscritti dalla Regione Puglia con grandi imprese dal 2009 al 2015, di cui 16 con gruppi esteri; non ci sono i 36 contratti di sviluppo sottoscritti da Invitalia al 21 luglio 2014, l’80% dei quali per le Regioni dell’obiettivo convergenza Campania, Calabria, Puglia e Sicilia; non ci sono gli investimenti petroliferi dell’Eni e della Total in Basilicata e non ci sono gli interventi del Ministero dello Sviluppo economico per salvare e rilanciare decine di aziende le cui crisi son ostate affrontate negli ultimi anni dalla Task force del ministero.
Ricordare che la crescita del Mezzogiorno è risultata inferiore a quella Grecia può servire solo ad avere qualche titolo ad effetto sui giornali che, peraltro, fra qualche giorno avranno del tutto dimenticato le analisi della Svimez; ma qualcuno pensa veramente di paragonare alla gracile economia ellenica quella del Mezzogiorno che fornisce all’intero Paese acciaio, zinco, piombo, petrolio, prodotti raffinati, materie plastiche, energia da fonti fossili e rinnovabili, autoveicoli, aeromobili, materiale ferroviario, il 40% dell’agroalimentare italiano, Ict, navi, prodotti farmaceutici, pompe per l’energia, con stabilimenti in molti casi di rilievo internazionale?
Anche i dati sull’elevata disoccupazione bisognerebbe leggerli ben più analiticamente, come ad esempio quelli dei diplomati e laureati, per specifiche tipologie di studi compiuti, o in base alle effettive richieste del mercato, perché altrimenti non si aiuta chi deve affrontare il problema del rilancio occupazionale.
Federico Pirro – Università di Bari