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Eni, Saipem, Versalis. Come far sprigionare energia all’Italia

La transizione verso l’utilizzo pieno delle energie rinnovabili può partire, nel nostro Paese, solo se sarà accompagnata non da un blocco delle attività estrattive, ma da un approccio responsabile che superi le sterili posizioni di chi vuole mettere lo sviluppo contro l’ambiente, gli investimenti contro la natura. E questa trasformazione del sistema di approvvigionamento avrà anche bisogno di risorse economiche per essere sostenuta, sia per gli investimenti e la ricerca, sia per salvaguardare i territori e l’ambiente.

L’Emilia-Romagna ha indicato chiaramente qual è la strada. Non si è fatta travolgere dalla demagogia che a volte accompagna le ragioni ‘No Triv’ e votando no al referendum ha avuto il grande pregio di richiamare la politica alla sua ragione d’essere: cercare soluzioni che, mettendo da parte le posizioni radicali, puntino a costruire una proposta da presentare al Governo perché riveda alcuni elementi del decreto Sblocca Italia, il provvedimento con il quale la ricerca di petrolio e gas nei mari italiani era dichiarata strategica.

Occorre – oggi – aver presente due verità scomode ma inesorabili: 1) petrolio, carbone e gas domineranno ancora a lungo la scena energetica; 2) petrolio, carbone e gas permettono di produrre energia a basso costo. Per questo occorre non commettere l’errore di mettere in competizione le varie risorse energetiche con un approccio da ‘tifosi’.

Volendo sostenere le fonti fossili si potrebbe per esempio obiettare che tenendo conto delle condizioni di presenza effettiva del sole in Italia durante l’anno (le ore di ‘insolazione’) non si supera il 15% delle ore disponibili. Che non sono ancora in funzione sistemi di trasmissione dell’elettricità in grado di ‘reggere’ una fonte di energia intermittente, com’è quella delle rinnovabili. Che adeguare la rete e le infrastrutture necessarie per sostenere una produzione esclusivamente basata sulle rinnovabili costerebbe centinaia di miliardi.

Un blocco delle estrazioni, inoltre, sarebbe deleterio per la sopravvivenza delle imprese impegnate nel settore, direttamente o nell’indotto, per l’occupazione – per esempio solo in Emilia-Romagna sono 40 mila i lavoratori che da Ravenna a Piacenza operano nel settore Oil&Gas – ma anche per la bilancia dei pagamenti. In gioco, limitandoci solo all’Emilia-Romagna, ci sono alcuni miliardi di investimenti, 4,8 per essere precisi, che potrebbero alleggerire la bolletta energetica del nostro Paese di 1,5 miliardi, generando un gettito aggiuntivo per le casse dello Stato di 600 milioni all’anno. E creerebbero 7 mila nuovi posti  di lavoro.

Per questo periodo di transizione occorre un grande sforzo – come ricorda Leonardo Maugeri nel suo libro ‘Con tutta l’energia possibile’ – di ricerca, sviluppo tecnologico ed efficienza energetica: solo questo impegno potrà permetterci di superare le questioni che costituiscono la nostra trappola energetica. Uno sforzo che, a mio parere, rende ancora più urgente l’esigenza di una politica industriale lungimirante, che metta insieme ricerca e progettualità con la creazione di posti di lavoro, oltre che con la difesa di quelli esistenti. Non possiamo pensare infatti di mettere in moto nessun tipo di crescita o di agganciare qualsivoglia ripresa se le scelte di politica industriale portano a una contrazione dell’occupazione.

Una politica industriale nazionale in questa fase di transizione deve ricevere un contributo fondamentale dalle nostre aziende nazionali come Eni, Versalis, Saipem, Finmeccanica, Enel e le tante municipalizzate. L’esecutivo è pronto ad approvare misure di governance delle società pubbliche e allora gli si deve chiedere di non limitarsi solo a definire norme per diminuire le poltrone nei consigli di amministrazione, ma di affrontare il tema della governance d’indirizzo di mandato e controllo di dette società pubbliche.

Mi si permetta un pizzico di populismo: tali società appartengono in parte al Governo o agli enti locali e, quindi, a noi cittadini. Per questo non si possono gestire le strategie che le riguardano solo rispondendo all’esigenza di realizzare performance finanziarie, ma anche coinvolgendole nella difesa del nostro welfare. Che significa difendere il lavoro, il benessere dei territori e, di conseguenza, i servizi ai cittadini. In sintesi, per riprendere il tema del ruolo di indirizzo della politica, sarebbe il caso che le strategie aziendali siano stabilite avendo come priorità il bene comune e non le quotazioni di borsa.

Altri Paesi, che mantengono profili ‘liberali’ in economia, difendono ed indirizzano politiche di mandato alle proprie aziende di eccellenza. Lo dovremmo fare anche noi.


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