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Lavoro, il vero problema sono i 3,6 milioni di inattivi. Parola del governo

Ha ragione Matteo Renzi quando dice che l’Italia deve recuperare soprattutto la fiducia per riprendere il cammino della crescita e sconfiggere la disoccupazione. E’ proprio la fiducia quella che manca agli oltre tre milioni e mezzo di italiani che ormai un lavoro non lo cercano più. Per mille motivi. In termini tecnici si chiamano Flp, che sta per Forza lavoro potenziale, una componente che si divide tra gli individui che non cercano attivamente un lavoro, ma sono disponibili a lavorare e coloro che cercano lavoro ma non sono subito disponibili.

Sono una categoria di ‘’invisibili’’, la metà dei quali di norma resta al palo perché si dichiara ‘’scoraggiata’’, che si aggiungono agli oltre tre milioni di disoccupati (che un posto lo cercano) e ai circa 6 milioni di poveri. In tutto fanno oltre dodici milioni di persone, un piccolo paese europeo. Come la Grecia o la Bulgaria. Sono numeri gestibili? Sì, a patto che si leggano senza partigianerie. Tutto ruota intorno alla capacità che il Paese ha di innovare i processi produttivi creando nel contempo occupazione, che significa poi in sostanza aumento del reddito e della domanda.

Mai come in questi mesi le cifre sull’occupazione sono scandagliate e si prestano a diverse letture in quanto sono in vigore da poco i due provvedimenti fondamentali del governo, la decontribuzione per le nuove assunzioni e il Jobs Act, il nuovo contratto a tutele crescenti. Sgombrando il campo dalle strumentalizzazioni politiche, va detto subito che è vero: il mercato del lavoro sta ripartendo, come il sentiment dei consumatori, il Pil e i mutui. Inutile e controproducente negarlo, magari evitando però toni miracolistici come qualche pur autorevole commentatore fa, secondo cui anche se a settembre ci sarà una stasi o una perdita di posti, l’occupazione durante il governo dell’ex sindaco di Firenze aumenterà comunque di 342.000 unità perché da tre mesi consecutivi aumentano gli occupati (+19 mila a giugno, + 57 mila a luglio, + 69 mila ad agosto).

Questi nuovi lavoratori dovranno infatti essere ‘’confermati’’ quando scadrà la droga triennale (per ora finanziata per un anno) della defiscalizzazione delle nuove assunzioni.

Così come è evidente a tutti come questo piccolo balzo dell’occupazione sia ancora troppo flebile, viste le condizioni irripetibili in cui si trovano a vivere l’Italia e l’Europa: tassi a zero, inflazione pressoché nulla, spread ridottissimo, petrolio mai così basso negli ultimi anni. Un carburante che potrebbe far scattare la nostra economia come una Ferrari. D’altra parte, controprove su come starebbe la penisola senza gli 80 euro e le due misure per il mercato del lavoro non ce ne sono e quindi è inutile dibattere senza dati certi.

Tra ritardi e polemiche, la cosa migliore, oltre alle stime dell’Inps e dell’Istat, che necessiterebbero di un’armonizzazione migliore per evitare ogni mese lo stillicidio della caccia all’errore, è leggere un documento ufficiale: la Nota di aggiornamento al Def, appena varata dall’esecutivo. Un testo ufficiale, insomma. E in quel documento c’è un capitolo breve ma fondamentale, intitolato ‘’Il miglioramento del mercato del lavoro’’. Va analizzato con attenzione.

Nella prima metà del 2015 l’occupazione è cresciuta oltre le previsioni formulate all’inizio dell’anno dalla maggior parte degli analisti; le recenti comunicazioni dell’Istat – scrive il governo nel focus – hanno rivisto al rialzo le stime degli occupati con un effetto di trascinamento sulla media del 2015 superiore a mezzo punto percentuale. Una revisione più modesta ha riguardato anche le per unità di lavoro a tempo pieno (ULA). Inoltre, in base agli ultimi dati, nei primi 6 mesi del 2015 gli occupati sono aumentati dello 0,8 per cento rispetto allo stesso semestre dell’anno precedente, con un incremento tendenziale dello 0,9 per cento nel secondo trimestre. Al miglioramento dell’occupazione non hanno contribuito solo i primi effetti del ‘Jobs Act’ e degli incentivi fiscali sulle assunzioni, ma anche una ripresa della produzione lievemente più rapida del previsto.

Successivamente alla peggiore caduta dell’occupazione, nei primi tre mesi del 2013, l’occupazione è quindi aumentata più rapidamente del Pil. Se questa tendenza dovesse confermarsi, il recupero dei livelli occupazionali pre-crisi potrebbe avvenire in tempi più rapidi di quanto previsto da diversi analisti, prevede il ministero dell’Economia e francamente ce lo auguriamo tutti.

L’elevata reattività dell’occupazione al Pil è spiegata, almeno in parte, dal fisiologico recupero della domanda di lavoro dopo una prolungata fase di recessione e sembra essere associata ‘’ad una maggiore flessibilità dei salari e ad una più elevata efficienza del mercato lavoro’’. In particolare, le retribuzioni di fatto per ULA hanno avuto un incremento cumulato dal 2008 al 2015 solo del 12,8 per cento, a fronte di un aumento complessivo dei prezzi del 13,7 per cento. Nello stesso periodo, le retribuzioni contrattuali per ULA sono aumentate del 25,2 per cento, evidenziando una dinamica della componente accessoria delle retribuzioni (wage drift) negativa per 12,4 punti percentuali. Solo nell’anno in corso si sono registrati segnali di ripresa con un incremento delle retribuzioni di fatto dello 0,7 per cento (con una inflazione pari allo 0,1 per cento). Il wage drift rimane negativo, ma solo per 0,5 punti percentuali: è un punto importante per la ripresa, i salari devono crescere più dei prezzi per dare sostegno alla domanda.

Gli incentivi fiscali (introdotti a partire da gennaio 2015) e il Jobs Act (avviato a marzo del 2015) hanno peraltro contribuito a rendere più “stabile” l’occupazione, come testimonia la crescita della quota di nuovi contratti a tempo indeterminato, che si attesta ormai al 18-19% in base alle Comunicazioni Obbligatorie raccolte dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, dopo essere diminuita costantemente dal 2010 fino alla fine del 2014 (dal 18 al 15 per cento circa). Un dato confermato dall’Inps. L’istituto rileva che, tra gennaio e luglio 2015, il 21,5% del totale dei nuovi rapporti instaurati nel settore privato e il 55,6% dei contratti a tempo determinato trasformati senza scadenza hanno usufruito dello sgravio contributivo renziano.

‘’L’effetto di questa stabilizzazione dei rapporti, tuttavia, tarda ancora a manifestarsi sullo stock complessivo degli occupati, misurato dall’Istat’’, ammette però il governo. Il perché lo spiega sempre la nota del Def. La percentuale di lavoratori con un contratto a tempo indeterminato (pari all’86,5% nel secondo trimestre del 2015) ‘’risulta ancora in lieve flessione (-0,3 punti percentuali nel primo semestre 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014 e -0,6 punti percentuali rispetto al 2007)’’. La crescita dell’occupazione resta quindi ancora caratterizzata da alcuni aspetti critici. La crisi profonda che ha colpito l’Italia ha portato ad una drastica caduta dei posti di lavoro per le fasce più deboli della popolazione, in particolare la componente giovanile. E qui non ci sono fatti nuovi, purtroppo.

Diverse le implicazioni, invece, per la fascia di popolazione degli over 54, che ha fornito negli ultimi anni un contributo positivo alla variazione dell’occupazione. E questa è una sorpresa, visto il dramma degli esodati, gli over 50 rimasti senza pensione e senza lavoro. I motivi, anche in questo caso, sono esplicitati sempre dal ministero. ‘’Questo andamento è in parte attribuibile alla entrata in vigore della Riforma Fornero che ha determinato l’innalzamento dell’età pensionabile’’, scrivono i tecnici di via XX Settembre. Ancora nei primi due trimestri del 2015 il contributo della fascia degli over 54 spiega per 1,2 punti percentuali la variazione dell’occupazione. E la ripresa ha cominciato ad interessare i giovani e i lavoratori di età intermedia solo negli ultimi mesi. Nel primo semestre del 2015, la fascia dei lavoratori under 35 ha visto migliorare la sua performance, riducendo il suo contributo negativo alla crescita dell’occupazione (solo -0,3 punti percentuali).

In questo quadro che mostra i primi segnali di ripresa, il calo del tasso di disoccupazione, sceso ora sotto il 12% risulta ancora ‘’modesto’’, seppure in linea con le previsioni del Def di aprile (12,3 per cento, 4 decimi in meno del 2014). E questo perché aumentano gli scoraggiati.

Il tasso di inattività è diminuito nel primo semestre del 2015 di 0,4 punti percentuali (e ha continuato anche ad agosto secondo le ultime rilevazioni), arrivando al 35,9% (il valore più basso che si sia registrato dal 1993) e tale diminuzione è stata determinata, in misura maggiore, dalle fasce 55-64 anni e 25-34 anni (che hanno contribuito rispettivamente per -1,3 e -0,3 punti percentuali allo score finale del numero di inattivi). Una componente particolarmente significativa degli inattivi è data, come detto in premessa, dalla Forza lavoro potenziale (FLP), pari a circa 3,6 milioni di lavoratori nel secondo trimestre del 2015 e in costante aumento dal 2006 (quando erano molto meno, 2,2 milioni). E’ proprio questo il punto dolente del mercato del lavoro in Italia: sono tanti, troppi, coloro che non ci vogliono entrare e il fenomeno è superiore alla media europea. Ne è consapevole anche il governo che chiosa la sua dissertazione sull’occupazione in questo modo: ‘’aggiungendo questa componente (la Flp, ndr) ai disoccupati, i deboli segnali di diminuzione dell’area della mancata occupazione dei primi due trimestri del 2015 vengono fortemente ridimensionati’’. Cinque righe vergate da addetti ai lavori esperti, non dai primi gufi che passano.

A questo punto va capito perché milioni di italiani preferiscono stare senza lavoro: hanno altri redditi? Sono ricchi? Sono disperati? Vivono ancora con i genitori? Quando il numero degli scoraggiati sarà sensibilmente diminuito non ci si dovrà più accapigliare ogni mese sui dati congiunturali dell’occupazione.


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