Skip to main content

Tutti i nuovi piani di Isis in Libia

La Libia potrebbe essere, per lo Stato islamico, il piano di emergenza nel caso il progetto del Califfato tra Siria e Iraq tramontasse. Da più di un anno si sa che i drappi neri, arrivati inizialmente a Derna ma poi cacciati da un milizia locale, si sono concentrati su Sirte, la città in cui morì il rais libico: qui i miliziani di Abu Bakr al Baghdadi hanno trovato spazio tra l’ideologia di Ansar al Sharia e tra gli ex lealisti gaddafisti, sviluppando qualcosa di simile a quello che è successo anni fa con i baathisti di Saddam Hussein in Iraq. Ad agosto 2011 il New York Times apriva il sito con un pezzo dedicato all’intervento militare a guida Usa in Libia contro il rais Muammar Gheddafi, definendolo “un modello per altri sforzi” del genere: a distanza di poco più di quattro anni, il 28 novembre, l’altro ieri, l’apertura dell’edizione online del Nyt era dedicata ad un lungo reportage curato da David Kirkpatrick, Ben Hubbard e Eric Schmitt, giornalisti esperti di Nord Africa, terrorismo e sicurezza nazionale, che delineavano le mire dei jihadisti sul Paese. Contemporaneamente sono usciti anche due pezzi sul Wall Street Journal, uno sulla “morsa che l’Isis stringe” su di Sirte e un altro che racconta di come stiano nascendo nella stessa città anche delle forze di resistenza al Califfato (ad agosto una rivolta locale è stata ferocemente repressa dagli uomini dei al-Baghdadi, che in quell’occasione hanno anche abbattuto le antenne che ripetono i segnali telefonici e internet, di fatto isolandola dal mondo esterno).

Patrick Prior, capo analista del controterrorismo della Defense Intelligence Agency americana, ha spiegato proprio al Nyt che “le cellule di Isis in Libia sono quelle che ci preoccupano di più perché sono il loro hub nel Nord Africa”.

Una nuova Raqqa. “Non saremo meno di Raqqa” è il motto dei baghdadisti di Sirte, città sulla costa libica, in cui pare che il Califfo in persona abbia inviato “alti funzionari” per organizzare la presa del potere. Le operazioni per destituire Gheddafi nel 2011 non hanno avuto un seguito costruttivo, e così le istanze islamiste hanno attecchito in modo incontrollato. Una guerra civile tra miriadi di fazioni locali s’è scatenata, il governo di Tobruk e quello di Tripoli, che fanno da conglomerati a questi gruppi locali, non hanno ancora trovato un accordo per erigere un esecutivo di unità nazionale, e nel vuoto di potere il Califfo ha trovato terreno fertile.

La strategia. Sirte e l’est libico sono luoghi strategici. L’espansione delle milizie baghdadiste ha finora interessato l’area peri-urbana della città, sia verso Abugrein che Nawfiliya, ma secondo diversi analisti il vero obiettivo espansionistico libico del Califfato è la città di Ajdabiya, la porta verso i campi petroliferi orientali della Libia. Ancora una volta, il Califfo dimostra di aver chiare le priorità, spostando il proprio interesse sul controllo dei pozzi (che sono gestiti da vari società internazionali) per impostare anche in Libia, come in Siria e Iraq, una propria economia.

SIRTE

Ufficialmente i nostalgici del rais sono definiti “apostati”, dunque nemici, ma materialmente sono il gruppo con cui l’Isis ha stretto di più, anche perché sono quelli che non trovano spazio in nessuna delle fazioni comprese nelle galassie dei due governi.

Da gruppo di simpatizzanti a provincia. Mentre prima i seguaci del Califfo in Libia erano solo un gruppo di simpatizzanti locali “non troppo preoccupanti”, da qualche mese sono arrivati i colonnelli del Califfato dall’Iraq per centralizzare la gestione della provincia. La catena di comando in Libia, fa sì che la provincia locale sia l’unica tra quelle in giro per il mondo ad operare direttamente sotto il controllo dello Stato islamico centrale, quello siro-iracheno, spiega il Nyt: le altre, per esempio quella egiziana, o quella afghana o nigeriana, operano seguendo delle linee guida dettate da Raqqa ma con una relativa indipendenza. La Libia è un tutt’uno con Siria e Iraq, invece. Secondo alcuni esperti, a Sirte ci sarebbe anche Turky al Binali, ideologo molto in voga a Raqqa, del Bahrein, che ha scritto la biografia del portavoce Abu Mohammed al Adnani e del Califfo Baghdadi: la sua presenza a Sirte potrebbe essere un’altra cartina tornasole della centralità che la Libia ha adesso per l’Isis.

Il video dichiarazione. A febbraio il braccio mediatico dell’Isis a Raqqa, Al Hayat, ha rilasciato un filmato, prodotto sotto il proprio logo con la solita accuratezza e sofisticazione audio-video, ma girato in Libia. Si tratta della famosa decapitazione di 21 prigionieri copti egiziani, avvenuta proprio nella spiaggia di un resort turistico di Sirte. Quella fu l’occasione in cui lo Stato islamico dichiarò ufficialmente la sua presenza in Libia, ripresa anche dalla rivista ufficiale Dabiq: alla fine di quel video, un uomo con il coltello puntato verso il mare, dichiarava Roma il prossimo obiettivo; anche Ismail Shukri, alto funzionario dell’intelligence della città/stato di Misurata, ha detto al Wsj che l’Isis è in Libia per colpire Roma più comodamente, ma questo genere di dichiarazioni devono essere prese con peso relativo, visto che non è la prima volta che alti funzionari dei governi libici fanno annunci del genere con il fine di attirare l’attenzione internazionale sulle proprie questioni. Secondo il Pentagono l’uomo che puntava quel coltello nel video da Sirte sarebbe stato Abu Nabil al Anbari, inviato del Califfo dall’Iraq: è probabile che dell’uccisione di massa si siano occupati direttamente i messi califfali mandati da Raqqa insieme a alla troupe-media per fare le riprese, e non “semplici” leader locali. Pochi giorni dopo l’esecuzione sulla spiaggia di Sirte, a marzo, un’unità combattete di Misurata (alleata più o meno indipendente dello pseudo-governo di Tripoli), la Brigata 166, fu inviata per scacciare l’Isis dalla città: dopo un’iniziale predominio, con i comandanti delle 166 che dichiararono il pericolo da declassificare, i misuratini non riuscirono a oltrepassare la periferia cittadina, sorpresi dal numero e dalla qualità dei miliziani del Califfo.

L’amministrazione. Sirte ora è una città nelle mani del Califfato: le radio pubbliche non passano più musica, impura secondo i precetti radicali islamici, e per strada sono iniziate le decapitazioni, raccontano i tre giornalisti del New York Times. Non solo: il Califfato sceglie i curriculum scolastici, esegue pattugliamenti della polizia religiosa, distribuisce il cibo, impone il chador alle donne e il divieto del fumo, e obbliga i negozi a chiudere durante le preghiere. Almeno mille famiglie sono scappate da Sirte cercando rifugio a Misurata, per non vivere sotto il fanatismo dell’Isis. Il wali locale, l’amministratore, pare sia un saudita, soggetto a rotazione periodica decisa da Raqqa. Il wali è costantemente protetto e messo al sicuro ogni volta che vengono avvistati i droni americani (o italiani?) volare sui cieli di Sirte. Ma, secondo quanto raccontato dai contatti al Nyt, i comandanti iracheni avrebbero più potere dell’amministratore saudita. Il wali potrebbe essere il fantomatico Abu Mughira al Qahtani, quasi uno sconosciuto, si sa solo che esiste: il suo suffisso, al Qahtani, è in accordo con le fonti del Nyt che dicono che “è un saudita”; ma c’è talmente tanto mistero dietro a questo personaggio, che per assurdo potrebbe anche essere un iracheno diffuso sotto falso nome per “non dare nell’occhio”.

I DUE DALL’ANBAR

Tra i colonnelli baghdadisti inviati in Libia, c’è (o forse c’era, vedremo) Abu Nabil al Anbari: inviato per coordinare il tutto, gli Stati Uniti dicono di averlo ucciso in un attacco di un drone il 13 novembre (il giorno degli attentati a Parigi), ma l’Isis, differentemente da quella che è l’abitudine, non ne ha celebrato la morte sui propri media. Diversi analisti sostengono che sia ancora vivo e si trovi nell’area fuori Derna (la stessa dove gli Usa lo avrebbero colpito). Quello su Abu Nabil è l’unico raid in Libia ufficialmente riconosciuto da Washington, e in molti hanno intravisto in quel bombardamento uno spostamento degli interessi americani: una sorta di riconoscimento della pericolosità dell’ala libica dell’Isis, confermato secondo il Nyt dall’invio nell’area di commando di forze speciali (anche inglesi) che operano in incognito, stivali a terra, cercando soprattutto di ottenere informazioni di intelligence più dettagliate su ciò che sta succedendo.

L’altro al Anbari. Le fonti del giornale americano (che però sono anche “western source” cioè intercettazioni), rivelano anche che recentemente in Libia è arrivato un altro importante leader: Abu Ali al Anbari (c’è una confusione nel nome de guerre, perché ha la stessa provenienza di Abu Nabil, cioè vengono entrambi dall’Anbar, la provincia sunnita dell’Iraq che sfocia in Siria, dove lo Stato islamico, pre-al Qaeda in Iraq, ha il suo bacino ancestrale). Abu Ali è il capo dello Stato islamico in Siria e sarebbe arrivato in Libia in barca: come lui, in molti avrebbero viaggiato senza troppi problemi, spostandosi dal campo di battaglia siriano per rientrare in territorio libico e viceversa. Secondo la rivista francese Intelligence Online, Abu Ali al Anbari è l’uomo che supervisiona tutte le operazioni all’estero del Califfato, dunque incluso l’attacco a Parigi. A proposito di questo: un approfondito articolo dello Spiegel, conferma che il jihadista considerato il comandante operativo degli attacchi del 13 novembre nella capitale francese, il belga Abdelhamid Abaaoud, faceva parte della Katibat al Battar dello Stato islamico. Al Battar è una brigata molto nota dell’Isis, composta prevalentemente da libici e da alcuni europei come Abaaoud, che ha combattuto in Siria e i cui uomini, al rientro, sono stati i primi a diffondere le visioni baghdadiste in Libia, ma a Derna (a Sirte, come si diceva, hanno attecchito grazie a smottamenti interni ad Ansar al Sharia).

HASSAN AL KARAMY

Il giornalista Daniele Raineri del Foglio è stato nei giorni scorsi in Libia per raccogliere informazioni su Hassan al Karamy, il capo dello Stato islamico a Sirte. Al Karamy indossa sempre il pakol, il copricapo di tradizione afghana che incorona chi ha combattuto il jihad all’estero (nel caso dovrebbe essere stato in Iraq ai tempi dell’occupazione americana); è libico: un dettaglio che spiega come in questa fase di conquista iniziale il Califfo preferisca dare alle varie popolazioni una leadership visibile, incarnata da un locale (“un libico ai libici, un egiziano agli egiziani e e così via, se non altro per evitare lo choc culturale di vedersi sottomessi a forze del tutto straniere” ha spiegato Raineri sul Foglio). “Al Karamy non è un leader militare, incarico affidato ad altri, è invece un khatib carismatico, un predicatore, quindi è autore e oratore della khutba, il sermone del venerdì che a Sirte  e dintorni serve da manifesto ideologico e da comunicato politico per gli adepti libici dello Stato islamico”. Karamy è lo shari’i di Sirte, il leader della predicazione, più potente dei locali comandanti militari, ma comunque sotto al wali, che è invece il capo amministrativo di tutto lo Stato islamico in Libia (come nelle altre province).

Il collegamento con Gheddafi. Karamy ha avuto, come molti altri a Sirte, legami con Gheddafi. “Hassan al Karamy è di Bengasi e ha un cugino più grande, Ismail al Karamy, 55 anni, che nella capitale Tripoli era un pezzo grosso delle forze di sicurezza del colonnello Gheddafi e dirigeva l’ufficio antidroga, l’equivalente libico della Dea americana, prima di essere catturato (dalle milizie di Misurata, ndr) nel 2011!, racconta Raineri, che cita anche altri parenti collegati con la catena di potere gaddafista (come si diceva, qualcosa di simile a quello visto in Iraq).

I LEGAMI (INDIRETTI) CON TRIPOLI

Dall’inchiesta del New York Times emerge un altro aspetto, veleno per l’attuale situazione socio-politica libica. I baghdadisti, “attraverso una rete di alleanze locali contraddittorie, i jihadisti sono stati anche in grado di attingere a una linea di armi e finanziamenti tramite esponenti del governo di Tripoli e dei suoi alleati tra le milizie di Bengas”. C’è un uomo dal nome di Wissam Ben Hamid, che sarebbe il tramite per l’ottenimento di fondi e armi dai locali. Bin Hamid è un signore della guerra, un leader storico tra le milizie che combattevano a Bengasi, che ha come unico scopo quello di sconfiggere il generale Khalifa Haftar, il capo militare del governo di Tobruk. La situazione è per certi versi simile a quella siriana: le statualità di Sirte, anche se sotto il controllo dello Stato islamico, continuano ad essere pagate attraverso il governo di Tripoli, che non può sottrarsi a questo per garantire la vita dei civili, ma così facendo fornisce indirettamente soldi all’Isis. Mentre qua da noi il Califfato è visto come il male assoluto con cui non si può negoziare, invece nei territori in cui si trova occorre farci i conti, e, per mantenersi in vita, certe volte, anche raggiungerci accordi.

Le armi. Per le armi, invece, lo svuotamento dei ricchi arsenali di Gheddafi ha fatto sì che i traffici diventassero una questione ordinaria in Libia: si possono comprare armi comodamente, ed è facile che milizie inclini alle istanze integraliste islamiche, non si facciano troppi scrupoli ad incassare i soldi del Califfato vendendo qualche armamento. La figura di Ben Hamid resta una della tante controverse che intrecciano affari in Libia: lo scorso mese, su un cellulare appartenente ad un elemento dell’Isis ucciso nella zona di Derna, sembra sia stato trovato un messaggio via Telegram con scritto “Kill Ben Hamid”.


×

Iscriviti alla newsletter