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Vi racconto perché serve un Nuovo Stato

L’intervista a Giorgio Mosci sull’associazione Il Nuovo Stato e sulla sua prima iniziativa (il convegno su “La Costituzione più bella del mondo?” che si tiene a Roma il 26 novembre alle 10 alla Biblioteca Angelica, nella centralissima piazza Sant’Agostino all’8) ha ben chiarito gli obiettivi di fondo. Forse però è utile rispondere ad alcuni interrogativi emersi tra i numerosi apprezzamenti espressi per le parole del presidente de Il Nuovo Stato su Twitter e Facebook.

Questi interrogativi possono essere sintetizzati così: ma è utile occuparsi ancora di Costituzione in una fase così tormentata? Se ci si deve occupare di Costituzione non è meglio che lo facciano i partiti piuttosto che associazioni culturali per quanto qualificate; infatti che peso reale possono avere queste ultime in una situazione così complessa? Anche nel lavoro culturale non è meglio che si scontrino le posizioni che hanno indirizzi di fondo divergenti? Che senso ha un’iniziativa bipartisan?

Rispetto al primo interrogativo, io credo che se la situazione generale (nazionale, europea ed estera) proseguisse senza particolari turbamenti, un periodo di pragmatismo fattivo, come quello che stiamo vivendo, realizzato “dall’alto” e appoggiato “da fuori” potrebbe bastare a garantire un pur non esaltante sviluppo del nostro Paese, sia pure rinunciando a un reale ruolo internazionale. Però tra il 2016 e il 2017 sono tanti gli appuntamenti politici che potrebbero cambiare il tranquillo scenario di riferimento dell’Italia (e tralasciamo le difficoltà a contrastare la deflazione segnalate dallo stesso Mario Draghi): dal referendum britannico sull’Unione europea alle presidenziali americane, dalle elezioni tedesche nelle quali potrebbe emergere un imprevedibile dopo Angela Merkel fino alle presidenziali francesi. Per non parlare della guerra in Medio Oriente. Arrivare con questo Stato in evidente crisi, con un sistema di sovranità popolare affannato, senza tentare di costruire un forte rapporto tra Stato e cittadini potrebbe essere particolarmente rischioso. Ragionare su come allargare le basi del nostro Stato con serie riforme della Costituzione significa preparasi a un’eventuale tempesta. Se poi non arriverà la tempesta, meglio. Naturalmente. Però la portata devastante di possibili eventi eccezionali affrontati senza un vero Stato anche solo parzialmente nazionale (non dico come la Francia ma almeno come la Polonia) dovrebbe spingere ad atteggiamenti cautelativi.

Sul secondo interrogativo: è vero che i partiti devono fare la loro parte e lungi da me prendere le distanze dalla “politica” che, quando è seria, rappresenta una delle attività più nobili che un buon cittadino possa esercitare. Il problema è la crisi culturale dei partiti della Seconda repubblica, di destra e di sinistra, e anche potremmo osservare di quel partito dei magistrati politicizzati che tanto ha segnato la nostra storia più recente. Naturalmente si può sperare che i partiti possano recuperare l’evidente deficit culturale che li contraddistingue oggi ma aiutare dall’esterno questo processo con un’elaborazione culturale distinta dall’impegno politico mi sembra che possa essere particolarmente utile: infatti le idee non nascono sotto i cavoli e una volta che le definisci e perfezioni, poi possono diventare contagiose. In questo senso anche un piccolo (speriamo poi che non resti tanto piccolo) gruppo di persone come quello raccolto dalla nostra associazione può ottenere alcuni buoni risultati

Sul terzo interrogativo, osservo che è vero che la dialettica culturale ha bisogno come la buona politica di conflitto tra posizioni diverse (forse più che la bobbiana contraddizione tra libertà ed eguaglianza, è interessante la contrapposizione burkiana tra innovazione nella tradizione o nell’ingegneria razionalistica della società) anche se è pure vero che una buona discussione culturale ha bisogno del confronto. Però nel momento attuale quel che prevale è l’emergenza: e si tratta di cercare di costruire un clima culturale costituente come in parte quello – pur segnato dalla Guerra fredda – del 1946. Finché dura questa emergenza c’è uno spazio per un’associazione strutturalmente bipartisan come la nostra: ed è talvolta meglio che certe intese bipartisan si realizzino sul terreno culturale che su quello immediatamente politico dove certe improvvisate convergenze possono di fatto indebolire il rapporto tra rappresentati e rappresentanti, finendo per logorare così uno Stato con basi già deboli.

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