La Sogin è un’opportunità per il Paese. Sarebbe un errore se, pur nel comprensibile sconcerto per le polemiche e i dissidi di questi giorni nel management, si comunicasse all’opinione pubblica una immagine distorta e allarmante del decommissioning nucleare. Che può rappresentare, invece, una possibilità di domanda e qualificazione per l’industria, la ricerca e altri operatori nazionali. E non solo per gli investimenti che andranno a completare il decommissioning italiano (circa 4 miliardi tra smantellamenti e costruzione del deposito nazionale dei rifiuti) ma per la straordinaria palestra che questo può rappresentare per la proiezione internazionale delle nostre aziende e per la stessa Sogin. Andrebbe tenuto presente, infatti, che entro il 2025, un gran numero di centrali nucleari europee arriverà al completamento del proprio ciclo di vita attiva. Si aprirà, dunque, una competizione per il loro smantellamento: un’occasione che non andrebbe sprecata per le nostre aziende e i nostri operatori.
È bene sulla Sogin, data la delicatezza e l’emotività che sempre circonda le tematiche nucleari, essere precisi. Evitare superficialismi e informazioni poco accurate. O che ingenerino preoccupazioni non fondate nell’opinione pubblica. Anzitutto sul tema della sicurezza. Esiste un rischio nucleare importante oggi negli impianti Sogin? Spesso si leggono affermazioni, al riguardo, esagerate ed allarmistiche che disorientano i lettori. Quasi fossimo in presenza di pericoli gravi, incontrollati ed incombenti. Non è così. In un impianto nucleare il massimo incidente previsto è la dispersione massiccia di radioattività originata da sorgenti significative di energia interna all’impianto. È bene sapere che negli 8 impianti nucleari italiani gestiti da Sogin (4 ex centrali e 4 tra centri di ricerca, una ex fabbrica del combustibile e depositi) tali sorgenti non esistono più. Per due ragioni: il combustibile esausto delle vecchie centrali (la sorgente principale di energia interna) è stato portato via, all’estero, per essere riprocessato; la maggior parte dei rifiuti a più alta attività, presenti negli impianti, sono stati ormai inertizzati. Cioè: immobilizzati e condizionati in matrici e barriere che non possono più, tecnicamente, causare alcuna dispersione. Certo ancora resta da fare per completare il trattamento e il condizionamento di rifiuti derivanti dalle vecchie attività di centrali e impianti. Ma le quantità in gioco sono assai limitate.
Il rischio sanitario è, dunque, limitato e circoscritto. Esiste, ovviamente, trattandosi di impianti che contengono aree radiologiche e contaminate. Ma parlare degli 8 impianti italiani come fossero, dal lato della sicurezza sanitaria e ambientale, centrali attive è del tutto fuori luogo e sproporzionato. Attenzione poi a descrivere la Sogin come un carrozzone o un occupificio. O una delle tante facce del sovraffollamento improduttivo della nostra PA. Non è, propriamente, così. Il compito di Sogin non è solo lo smantellamento. È la gestione in sicurezza degli impianti a lei affidati. La gestione in sicurezza di un impianto nucleare, anche disattivo, è diversa da quella di qualunque altro impianto di generazione elettrica o sito di bonifica convenzionale. Implica procedure, obblighi, rispetto di norme, prescrizioni, regole e attività operative, per legge, enormemente superiori ad ogni altro impianto in dismissione. Al punto che, pochi lo sanno, degli 800 addetti Sogin, ben 550 sono obbligati per legge a far parte del personale dell’azienda. Per garantire le attività, regolate minuziosamente, di gestione in sicurezza degli impianti.
Infine: facciamo attenzione anche nella polemica sui ritardi dello smantellamento. Soprattutto per essere precisi e concreti su quello che occorre fare per accelerare i tempi. I tempi del decommissioning nucleare sono, per natura, molto rallentati. Per tre motivi che sono altrettanti obblighi di legge. Primo: ogni attività di smantellamento o di trattamento e condizionamento dei rifiuti è sottoposta ad un preventivo e dettagliato iter autorizzativo, com’è naturale, non breve. Non dimentichiamo che le centrali nucleari hanno 60 anni di vita. La gran parte di esse è ancora attiva. Il decommissioning non è ancora una pratica standardizzata. E le autorità di sicurezza ritengono di dover essere molto attente e dettagliate nelle autorizzazioni. Forse troppo in qualche caso. Secondo: nessuna attività di smantellamento può iniziare se l’impianto non è privo del combustibile e con rifiuti radioattivi non ancora tutti in condizione di inertizzazione. Terzo: lo smantellamento è temporalmente condizionato dalla predisposizione delle attività logistiche e delle infrastrutture necessarie (depositi locali, impianti di taglio, stazioni di decontaminazione ecc) propedeutiche agli smontaggi. Questi tre aspetti- tempi delle autorizzazioni; trasferimento o immobilizzazione del combustibile, predisposizione della logistica e delle infrastrutture- hanno condizionato anche la progressione temporale del decommissioning italiano.
Occorrerebbe sapere, ad esempio, che solo negli ultimi due anni la Sogin ha acquisito, dall’autorità di regolazione, le istanze autorizzative di disattivazione delle centrali e dei siti ( neanche tutti) e solo nell’anno in corso è stato completato il trasferimento all’estero del combustibile. Detto tutto questo, il ritardo c’è. E va recuperato. La legge italiana che regolava la Sogin fissava un periodo di tempo, il 2020, per il raggiungimento del “prato verde”, la restituzione degli impianti al territorio per destinarli ad altre attività. Oggi si parla del 2035. È ovvio che più ritarda lo smantellamento maggiori sono i costi del mantenimento in sicurezza. Anche se, ad onore della verità, non bisognerebbe esagerare il peso degli oneri nucleari sulla tariffa elettrica che sono una percentuale infinitesimale degli extracosti ( incentivi alle rinnovabili) imputati alla tariffa elettrica. In ogni caso sarebbe ragionavole e, direi, obbligatorio porre ai futuri amministratori di Sogin la richiesta di un piano temporale di interventi, di programmazione della spesa e di progressione degli investimenti che definisca una data credibile di completamento del decommissioning. E possibilmente con qualche accelerazione.
Forse, oltre alla normalizzazione della governance della società, occorrerebbe chiedere all’azionista di Sogin e alla sua vigilanza, il ministero dello sviluppo economico, un atto di indirizzo (come fu nel 2001 ) strategico cui si ispirino i nuovi amministratori Sogin. Per noi operatori industriali le problematiche che sarebbero meritorie di riflessione sono tre, soprattutto. Primo: una riorganizzazione delle attività eminentemente industriali della Sogin- progettazione ed esecuzione degli smantellamenti – distinte da quelle di stazione appaltante. Perché non ipotizzare un unbundling di Sogin in cui le specifiche attività industriali vengano gestite in un partenariato con l’industria del settore, come avviene in altri paesi europei? Secondo: contribuire a qualificare una supply chain italiana industriale che accresca le competenze dell’industria e dei fornitori di Sogin per elevare il tasso di specializzazione del decommissioning nucleare italiano. Perché non istituire una specifica qualifica del decommissioning nucleare che, oltre ad assicurare la competenza di chi fa decommissioning, consenta alle nostre aziende di competere con i players stranieri e di rafforzarsi nelle gare internazionali? Terzo: un adeguamento degli iter autorizzativi. Per renderli più snelli nella misura del possibile e per concentrarli, massimamente, sugli aspetti essenziali della sicurezza, della salute degli operatori e dell’impatto ambientale.
Umberto Minopoli,
Presidente Associazione Nucleare Italiana