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Marine Le Pen e il populismo

Marine Le Pen ha vinto perché hanno vinto la paura e il populismo. Sfogliando i giornali, non c’è opinionista che si sottragga a questo cliché per spiegare il successo clamoroso del Front National alle elezioni regionali francesi. Ovviamente c’è del vero, ma resta l’abuso di un termine -populismo – a cui si ricorre con una certa disinvoltura ogni volta che un movimento o un partito antieuro vedono aumentare i propri consensi nelle urne.

Come dovrebbe essere noto, il populismo storicamente si caratterizza per un legame diretto e personale fra il popolo e il leader. Ha scritto Marco Tarchi, uno degli ideologi più autorevoli della “Nuova destra”, che la “leadership forte è innanzitutto un esempio di quella semplicità che il movimento intende restituire alla politica; è la dimostrazione di come le istanze dei cittadini possano essere espresse senza ricorrere alle lungaggini del processo rappresentativo” (“L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi”, il Mulino, 2003).

Questa personalizzazione del potere trova “nella classica tipologia weberiana una sistemazione ancora oggi validissima” (Mauro Calise, “Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader”, Laterza, 2013). Max Weber ne individua i tratti originali nella celebre definizione di carisma, cogliendo una costante delle organizzazioni complesse, dall’antichità fino all’età contemporanea. La forza del carisma sta nella natura messianica del messaggio del capo. Inoltre, il carisma nasce da uno stato di grazia unito, quasi sempre, a una disponibilità al sacrificio come occasione palingenetica. Il leader carismatico promette per sua natura un nuovo inizio, e in questa promessa sta la sua capacità di trascinare le folle.

Quando Weber scriveva le sue tesi, non c’era ancora la radio come canale di intrattenimento. Il cinema faceva i suoi primi passi, muti. E la televisione non era neppure immaginabile. Tuttavia, non aveva sottovalutato le potenzialità del potere carismatico. Con ciò presagendo genialmente l’irruzione, dopo pochi anni in tutta Europa, di leader visionari e magnetici. Che cosa sarebbe successo – come domanderà una fortunata pubblicità televisiva a proposito di Gandhi – se i leader carismatici avessero avuto a disposizione i moderni mezzi di comunicazione?
Forse meno di quanto si possa immaginare. Perché, come alcuni videoleader avrebbero imparato a proprie spese, i media hanno la capacità di rendere celebre in tempi rapidissimi un nuovo personaggio e il suo messaggio; ma, in tempi altrettanto rapidissimi, possono logorarlo e distruggerlo. È ciò che rende i “capi attuali così potenti e, insieme, così fragili” (Calise).

In ogni caso, al di là del giudizio che si può dare sul loro spessore politico e culturale, non c’è dubbio che Beppe Grillo, Matteo Renzi e Matteo Salvini da noi (come la Le Pen in Francia) si sono abbattuti come un ciclone sull’incapacità del sistema politico di adeguarsi alle regole della “democrazia del pubblico” (l’espressione è del politologo francese Bernard Manin), dove non si vota più tanto il partito e il programma bensì si vota innanzitutto la persona. Insomma, la “democrazia dei partiti” sembra in declino, e non da ora. Potrà non piacere, ma esorcizzare il fenomeno con la parola populismo non aiuta sicuramente a comprenderlo e a contrastarlo.


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