Poco più di una settimana fa, il ministro della Difesa saudita, il vice principe ereditario Mohammed Bin Salman, è apparso per la prima volta dalla nomina ad una conferenza stampa, convocata per annunciare ai giornalisti (e al mondo) la creazione di un’alleanza militare che coinvolge il suo paese come capofila di un gruppo di oltre 34 stati mediorientali e nordafricani a maggioranza islamica.
I PERCHÈ DELLA COALIZIONE
Ad un primo impatto, la coalizione può essere sembrata una risposta alle richiesta americane di “fare di più” nella lotta allo Stato islamico. A freddo, dietro alle contingenze che hanno portato alla formazione della partnership militare tra tutti quei paesi, ci sono le due più grandi questioni che il mondo sunnita soffre dall’inizio delle Primavere arabe, sfociate poi nel parossismo della guerra siriana, il più grosso teatro proxy della storia contemporanea. Innanzitutto, il destino, o meglio dire “l’eliminazione”, del dittatore Bashar el Assad, e poi la volontà di continuare a tenere l’Iran il più lontano possibile dal Medio Oriente e dai paesi dove s’è insinuato fino a raggiungere il centro del potere (e cioè la Siria, appunto, l’Iraq, il Libano e lo Yemen).
I SEGNALI DELLA VOLONTÀ SAUDITA
La creazione dell’alleanza militare, secondo diversi osservatori, è un’indicazione del fatto che l’Arabia Saudita vuole giocare un ruolo centrale nella regione ed intestarsi la guida dei processi che la regolano. Su Al Monitor Fahad Nazer, ex analista dall’ambasciata saudita in America e ora commentatore politico per diverse testate, ha evidenziato dei passaggi significativi in questo percorso saudita, iniziati già due anni fa. Con una decisione inaspettata, ad ottobre del 2013 l’Arabia Saudita rinunciò al seggio, spettante per turno, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: nel comunicato diffuso dalla Saudi Press Agency, Riad commentò la decisione spiegando che il Cds dell’Onu è un organo inefficace, usando l’esempio della mancata soluzione di pace tra Israele e Palestina, dell’assenza di una politica di sicurezza contro le armi di distruzione di massa in Medio Oriente (il riferimento andava all’Iran, pre accordo nucleare) e l’inefficienza dimostrata contro Assad. A questo passaggio, Nazer aggiunge la decisione, a marzo di quest’anno, di intervenire contro i ribelli yemeniti Houthi, creando già in quell’occasione un raggruppamento di Paesi disposto ad impegnarsi al fianco del governo di Sanaa, che poi s’è concretizzato nell’alleanza militare annunciata pochi giorni fa.
VOGLIA DI INDIPENDENZA IN RISPOSTA AGLI USA
Nazer ha definito la nuova alleanza militare in Medio Oriente e Nord Africa «l’equivalente islamico della Nato». Riad, come detto, spinge da tempo sulla linea di una propria indipendenza operativa, anche come risposta al logorarsi dei rapporti con gli Stati Uniti. La rinuncia al seggio al Consiglio di Sicurezza, più che “uno schiaffo all’Onu”, è stata una dichiarazione di indipendenza da Washington e un chiaro segnale di insofferenza. Il mese precedente, settembre 2013, gli Stati Uniti avevano sospeso sulla rampa di lancio” un’azione punitiva contro Assad, colpevole dell’atroce attacco al sarin contro i civili di Damasco. Con il passare del tempo, le cose sono soltanto peggiorate. Barack Obama ha scritto la propria legacy in un controverso accordo sulla riduzione del programma nucleare iraniano, che ha riportato Teheran (e le sue contraddizioni) tra i “buoni” del mondo; mentre Riad si è opposto con forza, nella consapevolezza che tra gli obiettivi esistenziali della Repubblica islamica sciita, c’è il regno sunnita dei Saud. Inoltre, da annoverare tra le questioni che hanno portato l’Arabia Saudita a sostenere la creazione della partnership militare indipendente, c’è il disinteressamento quasi totale (se si esclude una debole attività di intelligence) degli Stati Uniti nei confronti del dossier “Yemen”, dove Riad considera la ribellione houthi una minaccia alla stregua del Califfato.
L’ARCHITETTO
Dietro all’operazione saudita, c’è la mano di Mohammed bin Salman, ministro della Difesa, il più giovane del mondo. A soli trent’anni il sito specializzato Intelligence Online lo definisce «onnipotente». È a capo del monopolio statale del petrolio, della società di investimenti pubblici, guida la politica economica e il ministero della difesa, è anche vice primo ministro: ha praticamente il controllo su tutte le principali questioni del regno. In aprile è stato designato dal padre, il re, vice principe; segue in successione dinastica l’attuale ministro dell’Interno, Mohammed bin Nayef, anche se per il Washington Post è lui «il figlio che potrebbe essere il re saudita». «Il giovane principe sarà dominante per il prossimo futuro» ha scritto il corrispondente da Riad del Telegraph, perché è uno delle leve per il cambiamento saudita, e allo stesso tempo l’uomo che ha spinto per portare l’esercito dell’Arabia Saudita alla prima importante operazione di guerra, in Yemen, mettendo per altro il suo paese al comando della coalizione.
CRITICHE AMERICANE
A novembre il New York Times ha pubblicato un pezzo dove, sostenuto dai numeri, criticava la poca efficienza dei paesi del Golfo nelle operazioni contro il Califfato: nessun raid saudita da due mesi, la Giordania ha smesso gli interventi da agosto, gli Emirati Arabi addirittura da marzo. Il NYTimes sottolineava la mancanza di spinta da parte della componente musulmana della Coalizione a guida americana, alla quale si poteva sì rinunciare sul piano operativo (USA, Gran Bretagna e Francia, possono portare avanti da sé la campagna aerea), ma non certamente su quello socio-politico, dove questi paesi hanno il compito di apparire come portatori di un Islam buono contro l’estremismo del Califfo.
PESSIMO INIZIO
È evidente che la concentrazione sullo Yemen, banco di prova dell’intesa promossa a dicembre, ha sottratto forze e fondi alla campagna siro-irachena. I sauditi contemporaneamente denunciavano che quello in Yemen è un conflitto considerato dalla comunità internazionale quasi “di serie B”, ma il loro intervento a tutti gli effetti non ha risolto granché la situazione: gli Houthi non hanno perso terreno, al Qaeda (esclusa dalle operazioni militari saudite) ha conquistato il controllo di ampie fette di territorio nel sud del paese, e lo Stato islamico si sta affacciando prepotentemente sulla scena approfittando del vuoto di potere e del caos. Gli attacchi dell’IS sono culminati con l’uccisione del governatore della provincia di Aden, importante città del sud yemenita dove la coalizione guidata dai sauditi ha impostato una sorta di governo temporaneo in attesa di riprendere il controllo della capitale Sanaa. La (ri)presa di Aden è stato finora il maggiore successo delle operazioni militari in Yemen del primo abbozzo di questa “Nato Araba” creata dai sauditi: ma l’uomo simbolo della vittoria è stato fatto saltare in aria dallo Stato islamico; mentre ieri Riad ha intercettato un missile lanciato dai ribelli Houthi verso il sud del paese, tre giorni fa un altro era caduto nella città di confine di Najran, uccidendo tre civili. La posizione assertiva che l’Arabia Saudita sta assumendo nella regione, secondo un lungo articolo che David Kirkpatrick del New York Times ha dedicato a Mohammed bin Salman, arriva grazie alla sua influenza nei confronti degli altri governi dell’area.