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Ecco i nuovi piani del Pentagono anti Isis

Il Segretario della Difesa degli Stati Uniti, Ash Carter, ha ammesso davanti alla commissione Forze armate del Senato che in Siria e Iraq lo Stato islamico non è ancora stato “contenuto”. Difficile essere più esplicito: «La verità è che siamo in guerra». La strategia sull’area siro-irachena non dovrebbe modificarsi, si punta sempre su forze speciali e raid, integrate da formazioni locali; a proposito, il generale Gadi Esinkot, capo della forze di sicurezza israeliane, è stato altrettanto chiaro: “con gli airstrike non si batte l’Isis”.

Ma il Pentagono ha in mente un nuovo piano per contenere l’espansione dell’Isis in altre zone del mondo e combattere il terrorismo in genere. Il progetto è quello di costruire una serie di basi in Africa, Medio Oriente e Asia sud-occidentale: i militari americani potrebbero sfruttarle per acquisire informazioni di intelligence sui gruppi affiliati lontano da Raqqa ed eventualmente trovare supporto logistico per effettuare dei blitz, una sorta di hub per le operazioni speciali.

Gli analisti della Difesa americana, sono in dibattito sul come distinguere tra i gruppi che hanno giurato fedeltà al Califfo quelli che costituiscono una minaccia imminente per Stati Uniti e Europa e quelli che invece stanno sfruttando l’egida califfale per acquisire maggiore influenza locale.

Ufficialmente, i funzionari che hanno parlato con il New York Times hanno spiegato che il piano non è parte di una nuova strategia della Casa Bianca, ma è una proposta su come affrontare in futuro il counter-terrorism, la cui tempistica però è stata resa più stringente dalla diffusione di hotspot del Califfato a cavallo di almeno tre continenti. A quanto pare, anche in questa situazione, si sono create differenze tra scuole di interpretazione, con il dipartimento di Stato che, secondo le fonti del Ny Times, sarebbe in disaccordo con la proposta del Pentagono, perché preoccupato della militarizzazione che questa comporterebbe.

LE BASI

Nel progetto si prevede la creazione di quattro nodi focali, partendo dal rafforzamento delle strutture in Afghanistan e a Gibuti. La base sul Corno d’Africa ha permesso a Washington di gestire le attività del JSOC (il comando delle operazioni speciali) sia in Yemen che in Africa orientale. Un altro di questi nodi, dovrebbe essere in Medio Oriente, e Mark Mazzetti e Eric Schmitt, giornalisti esperti di sicurezza nazionale del Nyt, hanno pensato ad Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, dove attualmente gli americani hanno rafforzato la propria presenza a 3500 truppe; molte di queste erano già presenti, altre sono arrivate per sostenere le attività “anti-Isis”.

Mettere uomini a terra. La proposta avanzata da Carter è interessante, perché sotto certi aspetti sposta l’attenzione sull’aspetto umano del counter-terrorism, e in particolare sulle attività Humint (cioè di intelligence sulle persone) che in determinate situazioni possono essere affidate anche ai reparti speciali delle forze armate (nel governo italiano, per esempio, è in discussione una legislazione in tal senso). Dunque, per il Pentagono, serve essere attivi sul teatro operativo, mescolati tra i locali e coinvolti sul territorio, e non bastano soltanto i voli dei veicoli da ricognizione. In un incontro che si è tenuto giovedì a Palazzo Esercito a Roma, il capo di Stato maggiore della difesa italiana, il generale Claudio Graziano, ha spiegato come le operazioni psicologiche ancora oggi siano uno strumento operativo per il conseguimento di di obiettivi operativi.

L’ESEMPIO DI ABU NABIL

Due giorni il Pentagono ha confermato di aver ucciso, il 13 novembre, Abu Nabil al Anbari, considerato il capo dello Stato islamico in Libia. Abu Nabil è una figura centrale nel sistema del Califfato: è un iracheno, che sarebbe stato spedito nel paese nordafricano direttamente da Abu Bakr al Baghdadi per gestire la costruzione locale di quello che appare essere uno hotspot di importanza nevralgica del Califfato. La nota del Pentagono conferma che gli americani in Libia hanno una buona intelligence, probabilmente creata attraverso contatti locali, cioè attività di himunt (l’intelligence fatta tra le persone). Due settimane fa, era girata la notizia della presenza di team di forze speciali americane (e inglesi e italiane) in Libia. L’azione contro Abu Nabil potrebbe essere un buon esempio delle attività che Carter ha in mente creando il network di basi in giro per il mondo: raccogliere informazioni, spostare consensi, muoversi dietro alle linee nemiche, colpire la testa delle organizzazioni terroristiche.

IL RISCHIO DABIQ

Ma Carter è andato anche oltre, superando lo steccato ideologico della dottrina obamiana: il capo del Pentagono ha detto anche di augurarsi che truppe americane e elicotteri a sostegno, possano partecipare all’offensiva finale su Ramadi, che l’esercito iracheno condurrà a breve (almeno pare). Ma il lato opposto della medaglia, sta in un altro articolo sempre del New York Times, in cui due osservatori molto attenti, la giornalista Rukmini Callimachi e il professore Jen-Pierre Filiu, spiegavano che l’Isis non aspetta altro che l’America lanci operazioni di terra in Iraq e Siria. Nel pezzo si sottolineava come l’interesse dei baghdadisti è di vedere gli anfibi americani sul terreno per poterli affrontare in scontri epici. In questo, il Califfo sognerebbe una battagli apocalittica tra il suo esercito dell’Islam e quello dei colonizzatori, infedeli, crociati, con un campo di battaglia specifico: il piccolo villaggio di Dabiq, vicino Aleppo. Dabiq è un toponimo conosciuto, sia perché fu il teatro dell’esecuzione  Abdul Rahman Kassig, sia perché dà il nome alla rivista ufficiale dell’IS. Gli esperti americani sostenevano nel pezzo che sarebbe stato meglio evitare di affrontare del tutto la battaglia; diversa la visione del Foglio, che in un articolo di redazione auspicava uno scontro frontale, secondo uno schema di guerra convenzionale, e concludeva: «Se hanno ragione loro, allora quel villaggio sarà la fine dei tempi. Se ha ragione l’occidente, ci si apre un McDonald’s».

 



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