Che cosa tocca fare a Silvio Berlusconi per resistere alla comprensibile tentazione, che temo sempre più ricorrente, di liquidare la sua Forza Italia. Dove ormai non passa ora, di giorno e di notte, senza che qualcuno non gli strattoni la giacca, o il telefono, non lo minacci di lasciarlo, o di appiccare un nuovo incendio quando non è stato ancora spento il fuoco precedente. Egli ha dovuto addirittura rilasciare con tanto di comunicato ufficiale, per quieto vivere, una patente di Giobbe reclamata dal capogruppo forzista della Camera Renato Brunetta. Che basta vederlo, prima ancora di sentirne le invettive, per capire che non è per nulla paziente, inteso come dotato di pazienza. E’ magari solo paziente dell’Asl.
Più che un uomo, Brunetta ormai è un accendino, che si accende al semplice contatto. È una sfida permanente. Una sfida a chiunque gli capiti a tiro. Una sfida spesso a se stesso. Come se volesse mettersi continuamente alla prova, vedere sino a che punto riesce a sorprendere, a spiazzare, a resistere. Anche sul classico cornicione del palazzo, se qualcuno riuscisse a mettercelo, o ci arrivasse di rimbalzo da solo.
A me, che pure gli sono amico per una vecchia frequentazione che risale alla cosiddetta prima Repubblica, e per una comunanza di stima e di affetto per Bettino Craxi, negli anni della gloria e della disgrazia, dell’altare e della polvere, è capitato qualche tempo fa di essere da lui apostrofato nel “transatlantico” di Montecitorio in quanto giornalista.
Furente per i conti che il quotidiano Libero, per il quale peraltro non ho mai collaborato, aveva appena fatto con vistosi titoli di prima pagina ai vitalizi dei parlamentari, Brunetta riuscì a diventare più duro del presidente dell’Inps Tito Boeri, ammonendomi che le pensioni di cui godiamo noi giornalisti sono di almeno un terzo superiori a quelle che ci spetterebbero per i contributi versati. E gli sfuggì un “attenti” della cui enormità dovette poi rendersi conto da solo, visto che, avviatosi verso l’aula, tornò sui suoi passi per dirmi un ugualmente tardivo “niente di personale”.
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Con uno così capisco, francamente, i malumori che possono essersi sedimentati verso di lui nel gruppo forzista della Camera, ma anche fuori. E persino la stizza del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che nella settimana scorsa, proprio a Montecitorio, dopo essere stato interrotto e contestato con la solita vivacità da Brunetta, scaricò definitivamente il candidato di Forza Italia ad uno tre seggi da tempo vacanti alla Corte Costituzionale, l’avvocato e parlamentare Francesco Paolo Sisto, peraltro neppure votato negli scrutini precedenti da tutti i colleghi di gruppo.
Per quanto i grillini avessero appena annunciato una mozione di sfiducia individuale contro la ministra Maria Elena Boschi per la vicenda della Banca Etruria, ottenendone una rapida calendarizzazione, Renzi aprì al loro candidato alla Consulta, il professore Franco Modugno. Che la sera di quello stesso giorno risultò eletto giudice costituzionale dalle Camere in seduta congiunta, a maggioranza qualificata dei tre quinti, insieme con il candidato del Pd, Augusto Barbera, e con quello dei centristi ex berlusconiani, Giulio Prosperetti.
Che quella di Brunetta fosse stata una clamorosa autorete, fu un’opinione espressa subito da una fonte politicamente insospettabile come il suo omologo al Senato Paolo Romani, pur nel contesto di un giudizio negativo sulla reazione di Renzi. Che Romani affrontò il giorno dopo a Palazzo Madama, nell’anticamera dell’aula, con un epiteto volgare ma ormai così abituale anche nel linguaggio politico da poter essere scambiato per amichevole: “stronzo”. Forse proprio grazie a quello “stronzo” a Renzi è stato poi possibile a Brunetta e a Romani di sottoscrivere un comunicato di pacificazione fra di loro che vedremo quanto potrà durare.
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Un politico davvero paziente può essere considerato l’ex presidente del Consiglio e ormai anche ex deputato Enrico Letta. Il cui unico gesto d’insofferenza fu forse quella frettolosa e infastidita consegna della campanella di governo, quasi due anni fa, al successore Renzi. Che, d’altronde, solo qualche settimana prima, appena eletto segretario del Pd, lo aveva beffardamente esortato a “stare sereno”.
Neppure Enrico Letta, tuttavia, dovrebbe esagerare con la pretesa di essere per ciò compreso e sempre apprezzato. E di attendersi una pazienza illimitata di fronte ai tentativi che compie anche lui di cloroformizzare i problemi scomodi. Tentativi ai quali lodevolmente si è sinora sottratto il suo successore, come ha appena dimostrato a Bruxelles prendendo di petto la pur potente cancelliera tedesca Angela Merkel per la concezione e la gestione dell’Unione Europea.
L’ex presidente del Consiglio ha detto agli allievi di una sua scuola di politica che “deve cambiare il racconto dell’Europa”. Altro che racconto. Da cambiare, o aggiornare, sono i trattati istitutivi dell’Unione Europea, visti l’uso che se n’è fatto e i problemi sopraggiunti a livello anche extra-europeo, per non parlare di quelli che emergono ogni volta che si vota, com’è appena accaduto in Spagna, uscita anch’essa dal bipolarismo elettorale per stress comunitario.