Se si pensasse allo Stato Islamico non come a un brutale gruppo jihadista, ma come alla nazione che ambisce diventare, si potrebbe dire che gran parte del suo Prodotto interno lordo deriverebbe dal petrolio. Per certi versi è già così e questo fiorente commercio non sta mancando di generare tensioni e scambi d’accuse, come quelle tra Russia e Turchia.
LO SCONTRO RUSSIA-TURCHIA
“Se qualcuno pensa che la reazioni della Russia saranno limitate alle sanzioni commerciali, si sbaglia di grosso”, ha detto ieri Vladimir Putin nel suo discorso alla nazione. “La cricca al governo in Turchia continuerà a pentirsi di ciò che ha fatto, non se la caverà con i pomodori. Non abbiamo intenzione di lanciarci in un tintinnare militare di spade, ma non dimenticheremo mai chi ha sparato alla schiena dei nostri piloti”, ha aggiunto. E subito dopo è giunta la notizia della sospensione dei negoziati per il gasdotto russo-turco Turkish Stream.
Prima e dopo l’abbattimento del jet russo da parte di due caccia dell’aviazione turca, il presidente russo ha definito la Turchia come un Paese colluso con i drappi neri. Per ragioni strategiche, secondo molti osservatori c’è o c’è stata, ha raccontato Formiche.net, “una morbidezza da parte di Ankara e suo del presidente Recep Tayyip Erdogan nel gestire la questione Isis, lasciando libero transito dai confini per combattenti e traffici del Califfato. Tra questi, oltre l’aspetto del rifornimento delle armi, c’è il commercio di petrolio, su cui Putin ha alzato i toni con un’affermazione che suona più o meno così: la Turchia ha abbattuto il nostro aereo perché noi stiamo combattendo una guerra ai baghdadisti, mentre i turchi sono in affari con loro, gli comprano il petrolio, e la famiglia di Erdogan è direttamente implicata nei traffici del Califfo”.
Non si è fatta attendere la replica di Erdogan che, in un discorso dinanzi a sindacalisti ad Ankara trasmesso dalla tv, ha apostrofato come “immorali” le accuse rivolte dal governo russo contro di lui e la sua famiglia. E poi ha detto di essere a sua volta in possesso di “prove” che testimonierebbero il coinvolgimento della Russia nel contrabbando di petrolio dell’Isis in Siria. “Abbiamo le prove, le riveleremo al mondo”, ha detto, citando anche un nome circolato sui media già in questi giorni, quello d’un uomo d’affari siriano, George Haswani, “titolare di un passaporto russo”.
Scambi d’accuse non da poco, dettate anche, ha detto a questa testata il generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa, dalla secolare rivalità tra Russia e Turchia e dal sostegno che Mosca offre a Bashar al-Assad, ostile ad Ankara.
I RICAVI DELL’ISIS
Ma a quanto ammonta il business energetico dell’organizzazione guidata da Abu Bakr al-Baghdadi? Secondo recenti stime del governo Usa, spiega Luca Longo sul Mit Technology Review, pare basate sull’intercettazione di rapporti riservati del Diwan al-Rakaaez dell’Isis (l’equivalente del ministro delle finanze), il Califfato guadagna almeno 50 milioni di dollari al mese dall’estrazione e dalla vendita illegale di petrolio a prezzo di saldo: dai 35 dollari fino a soli 10 dollari al barile. Infatti, la strategia di espansione di Isis in Iraq e Siria non ha fatto altro che puntare al controllo dei pozzi petroliferi. Non è un caso che la maggior parte del petrolio controllato dal califfato si trovi nella Siria orientale”.
LA STRATEGIA
L’ultimo pozzo siriano, rimarca ancora Longo, “è stato conquistato a luglio 2015: i terroristi controllano ora 253 pozzi petroliferi e di questi circa 161 risultano ancora operativi. Secondo il comitato parlamentare per l’Energia del legittimo governo dell’Iraq, Isis estrae ora 30mila-40mila barili di petrolio al giorno dalla Siria e circa 20mila dai pozzi iracheni attorno a Mosul, anche se circa metà di questi ultimi producono solo olio pesante per asfalti”. Per produrre questo petrolio, l’Isis si basa su tre mosse: “hanno lanciato proposte di ingaggio a manager e ingegneri esperti nella gestione dei pozzi. I salari offerti arrivano a 225 dollari l’anno”; “gli Stati che finanziano sottobanco il Califfato sonoo altrettanto interessati ad inviare – oltre al denaro – anche macchinari e personale esperto, risorse che non dovrebbe essere difficile reperire fra gli Stati del Golfo e del Medio Oriente”, infine “lo Stato Islamico pare avere dimostrato ampie competenze nel settore del fai da te”.
LE ROTTE
In base a quanto spiegato dai russi, si legge su Repubblica, “le direzioni che il petrolio dell’Isis prenderebbe oltre il confine turco-siriano sarebbero tre. Una verso Ovest che avrebbe uno sbocco sul mare attraverso i porti di Iskenderun e Reikhandly. Un’altra quella settentrionale, termina a Batman, a cento chilometri dal confine siriano, hanno spiegato i militari russi. E poco distante anche dal confine con l’Iraq, altra cortina particolarmente permeabile. La terza sarebbe quella orientale”. Questi convogli, sono gestiti in larga parte proprio dall’Isis che provvederebbe a scortarli “finché – riporta Longo – non vengono ceduti a broker che a loro volta li passano ad altri intermediari, finché il petrolio non risulta ripulito dalle proprie impresentabili origini ed è pronto per entrare nei rispettabili canali di distribuzione ufficiali”.
IL FIGLIO DI ERDOGAN
Non è solo la Turchia ad essere sotto accusa, tenuto conto, come detto, che una volta “riciclato”, quel greggio prende direzioni sconosciute, forse anche quella occidentale. In verità, scrive il corrispondente da Washington del Corriere della Sera, Guido Olimpio, “a nessuno fa schifo il petrolio del Califfo. Dunque finisce in Turchia, in Kurdistan, a Damasco e molto più lontano perché a volte è mescolato a quello legittimo. E questo spiega come abbia portato allo Stato Islamico circa 500 milioni di dollari. Una fetta di quel miliardo di dollari che rappresenta il budget del movimento”. Però, aggiunge Olimpio, è su Ankara che si concentrano oggi le proteste di Putin, che coinvolgono anche la sfera personale del presidente turco. “Le accuse del Cremlino sulle tre rotte usate dall’Isis per far arrivare il greggio in Turchia sottolineano con clamore e foto aspetti già emersi. Solo che stavolta Mosca personalizza coinvolgendo i familiari del presidente turco Erdogan, dal figlio Bilal al genero”. Una tesi rilanciata anche dagli “oppositori di Erdogan”. Bilal, “sposato, due figli, 36 anni, laurea ed esperienza di lavoro negli Usa”, prosegue Olimpio, “è proprietario di numerose società. Tra queste ve ne sono alcune che importerebbero l’oro nero via Kurdistan iracheno per poi piazzarlo sul mercato asiatico (ma anche in Israele). Movimenti che hanno come punti d’appoggio il terminale turco di Ceyhan, sponde a Malta, un buon numero di petroliere e relazioni importanti. Un intreccio che, stando ai russi, farebbe gli interessi della famiglia del Sultano”.
LA POSIZIONE DELLA TURCHIA
Ad ogni modo, commenta sul Sole 24 Ore Alberto Negri, “le accuse della Russia alla Turchia per il traffico di petrolio siriano non meravigliano… l’oro nero dell’Isis veniva venduto anche ad Assad”. Ma oggi le foto mostrate dal Cremlino “somigliano un po’ troppo alla smoking gun di Colin Powell, la pistola fumante prova delle armi di distruzione di massa di Saddam che non si trovarono mai. Il commercio di petrolio c’è ma ormai è assai ridotto: il Califfato, secondo gli Usa, estrae al massimo 10mila barili al giorno”.
BUSINESS DA FERMARE
Tuttavia, aggiunge Longo della rivista del MIT, questo business andrebbe fermato e farlo potrebbe essere relativamente semplice. “Attacchi mirati e concertati su queste permetterebbero allo stesso tempo di bloccare la produzione alla fonte e di ripristinare con relativa semplicità la produzione quando il campo petrolifero sarà riconquistato. Lo stesso si può dire delle raffinerie ancora attive, mentre quelle “fai da te”, ancorché effimere, verrebbero comunque lasciate all’asciutto dal blocco dei pozzi”.