Il Daesh (o Isis) non è solo un’organizzazione terroristica. È anche un proto-stato con un territorio di quasi 250mila chilometri quadrati, una popolazione di circa dieci milioni di abitanti, un governo, un’amministrazione e un esercito. Il sostegno – o, almeno, l’obbedienza – della popolazione sono realizzati non solo con la forza e il fanatismo religioso, ma anche fornendo servizi: acqua, elettricità, sanità, scuole, giustizia penale e amministrativa. La sua legittimità dipende dalla capacità di soddisfare tali esigenze sociali essenziali. Con essa dimostra che il Califfato è più efficiente degli Stati imposti dall’Occidente sulle varie tribù. Vuole costituire un esempio per le altre organizzazioni panjihadiste che gli dichiarano obbedienza.
Ha quindi bisogno d’ingenti risorse finanziarie. Non può procurarsele, come l’austera al-Qaeda, solo con donazioni da parte delle ricche famiglie del Golfo. Per procurarsele ha organizzato un articolato sistema di autofinanziamento. Secondo il Dipartimento del Tesoro americano, gli aiuti esterni non superano il 3-5% del fabbisogno finanziario annuale di Daesh.
Come il possesso di un territorio che può essere attaccato, anche le esigenze finanziarie costituiscono una vulnerabilità dell’Isis, che può essere colpita. La coalizione anti Isis ne è consapevole. Finora però le misure adottate al riguardo si sono rivelate poco efficaci. Non sono certamente in condizioni di far crollare il Califfato. Possono però creargli nel tempo gravi difficoltà, quando saranno esaurite le riserve di cui dispone, derivate in gran parte dal saccheggio delle banche. A quella di Mosul sono stati sottratti 439 miliardi di dollari. Si valuta che Daesh ne disponga da 1 a 1,5 miliardi, depositati soprattutto in Libano e in Turchia su conti di intermediari fidati. Evita il denaro contante perché teme che venga rubato.
L’autofinanziamento copre da due terzi a quattro quinti del bilancio. È quindi essenziale capire quali siano le sue fonti di finanziamento e se e come sia possibile colpirle con i bombardamenti o con i controlli sul sistema finanziario globale, per evitare il money laundering, ovvero il riciclaggio di denaro. I vantaggi sarebbero sia diretti sia indiretti. Diretti perché si ridurrebbero le sue possibilità di reclutamento, almeno per ripianare le crescenti perdite che subisce. Molti foreign fighter e tecnici, necessari al funzionamento dei servizi, sono attirati dalle paghe alquanto elevate: da 300 a 600 dollari al mese, i combattenti; da 1.500 a 2.500, i tecnici in particolare gli ingegneri necessari per l’estrazione del petrolio e del gas. La riduzione dell’autofinanziamento obbligherebbe l’Isis ad aumentare la pressione fiscale e le estorsioni sulla popolazione, provocandone l’ostilità. Dovrebbe anche ridurre i già scarsi fondi concessi alle organizzazioni terroristiche asiatiche e africane che gli hanno giurato obbedienza. L’uccisione nell’ottobre scorso in un raid di forze speciali Usa dell’“emiro del petrolio”, il tunisino Abu Sayyad, ha consentito il recupero di molti documenti contabili, redatti con una cura simile a quella usata dalle Ss naziste nei campi di sterminio, e di comprendere come funzionino le finanze di Daesh.
I suoi fabbisogni finanziari annui ammontano, secondo il Tesoro americano e uno studio di Bloomberg, a 1,8 miliardi di dollari; una cifra analoga – due miliardi – è stata indicata da Dabiq, la rivista ufficiale del Califfato. Circa la metà del bilancio sarebbe assorbita dalle le paghe di miliziani; un decimo dalla polizia; un quarto dai servizi sociali. Il resto verrebbe impiegato per le azioni all’estero e per l’acquisto di armi, anche se ne dispone in grande quantità, avendole catturate alle forze irachene e siriane.
Gli introiti principali proverrebbero dal contrabbando di petrolio e di gas, per un totale di 550-600 miliardi di dollari all’anno. Sarebbero seguiti dall’agricoltura con 200 miliardi. Essa è molto ricca nelle sue aree settentrionali controllate da Daesh fra l’Eufrate e il Tigri. Esse producono il 40% dei cereali dell’intera ”mezzaluna fertile”. I contadini sono sottoposti al regime dello Zabat, cioè al versamento fino al 50% dei loro prodotti all’Isis, che si avvale d’intermediari per la vendita sui vari mercati. Da 25 a 40 milioni di dollari proverrebbero dai sequestri di persona. Circa 20 dal commercio di opere d’arte e 200-300 milioni dalle tasse, dalle estorsioni e da balzelli vari, quali i pedaggi sulle strade.
Una decina proverrebbe dal traffico di rifugiati. Le donazioni dal Golfo ammonterebbero a 5 milioni all’anno, il che spiega in gran parte i modesti risultati ottenuti dai controlli internazionali della Fatf (Financial action task force). È una cifra minima, difficilmente rintracciabile rispetto al riciclaggio della criminalità organizzata, che ammonta a diverse centinaia di miliardi all’anno. Maggiori possibilità derivano nel rintracciamento del “tesoretto” posseduto dal Califfato, Secondo le carte recuperate da Abu Sayyad, esso sarebbe depositato a nome di fedeli intermediari in una ventina di banche pressoché impenetrabili.
Da quanto detto, l’unico contrasto efficace al finanziamento di Daesh è quello relativo al petrolio, venduto soprattutto in Siria, Libano e Turchia. Il governo di Damasco e gruppi d’insorti siriani, inclusi i curdi dell’Ypg, comprano il petrolio estratto dall’Isis, trasportato da autobotti e smerciato tramite intermediari, appartenenti alle tribù sunnite, in primo luogo alle piccole raffinerie di villaggio, che lo trasformano in gasolio e benzina.
Un’azione più decisa di quella sinora fatta per stroncare il traffico di petrolio incontra però notevoli difficoltà. Sinora solo poche centinaia di raid aerei della coalizione sono stati diretti a colpire giacimenti, raffinerie e soprattutto autobotti. Le regole d’ingaggio imposte da Barack Obama ai bombardamenti americani sono ridicole. Obama pensa di riuscire a ottenere l’appoggio di molte tribù sunnite, che forniscono la manodopera necessaria al traffico e che lucrano sulla vendita di petrolio. Lo acquistano a 20-30 dollari al barile e, dopo averlo raffinato, lo vendono a 60-70 dollari. Per non colpire le tribù sunnite, Obama ha ordinato di far precedere di 45 minuti gli attacchi dei cacciabombardieri dal lancio di volantini che avvisano gli operatori di mettersi al riparo. Il risultato si può facilmente capire. Sinora la coalizione Usa ha distrutto 200 autobotti. In poco più di un mese sembra che russi e francesi, che non ci vanno tanto per il sottile, ne avrebbero distrutte 500.
Il “tesoretto” copre le carenze di autofinanziamento per 300-400 milioni di dollari. Se non si riducessero gli introiti del petrolio, l’Isis potrebbe sopravvivere finanziariamente per tre-quattro anni. L’Occidente non può aspettare tanto tempo. Non vi è quindi alternativa all’impiego di forze terrestri, se non di quelle occidentali, che non hanno alcuna intenzione di cacciarsi nel ginepraio mediorientale, almeno di quelle locali, in particolare di quelle curde, Turchia permettendo.