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Ecco come salvare l’Ilva

Non serviva il richiamo della Commissione Ue a ricordare che la strada dell’Ilva 100% pubblica era sbagliata e dannosa. Nell’incontro di un anno fa con il ministro Federica Guidi e il commissario Piero Gnudi, solo la Fim aveva giudicato questa strada non solo inutile ma profondamente sbagliata. In tutto il mondo le aziende sono state salvate con interventi pubblici temporanei e parziali e soprattutto con quote di capitale che non deresponsabilizzasero il sistema industriale e bancario. Proprio in queste settimane, lo scorso anno invece tutti brindavano, eccetto noi, mascherando ritardi, sottovalutazioni ed omissioni con la versione cialtrona di un ritorno a Keynes.

I trombettieri dell’acciaio pubblico non ricordavano l’epilogo dell’Italisider: inquinamento, tangenti e arretramento industriale, quando invece si era in tempo per cambiare la storia.
Nel 2013 e fino all’inizio del 2014 il commissario Enrico Bondi, l’unico commissario ad oggi con competenze di settore, aveva un piano industriale, giudicato costoso e non servirà arrivare alla fine per fare i conti, lo Svimez lo scorso luglio ha contabilizzato che in tre anni sono andati in fumo 10 miliardi di euro di Pil. Per la precisione 9,87 miliardi di euro. La stima effettuata dal gruppo di lavoro coordinato dall’economista Stefano Prezioso ha tenuto conto anche dei modelli analitici di Ipres e di Remi-Irpet.

Il piano di Bondi era serio e credibile perché contemplava l’utilizzo delle tecnologie per innovare il ciclo integrale dell’Ilva attraverso l’utilizzo del pre-ridotto, con uno studio, che giudico, molto serio del professor Carlo Mapelli del Politecnico di Milano. Questa soluzione necessita gas a prezzi competitivi (necessità del Paese e non solo dell’Ilva, come lo stesso Bondi spiegava) e non è necessario essere acquisiti da un produttore di gas per andare incontro a questa necessità. Aveva il “difetto” di essere costruito, rispettando le prescrizioni Aia, per centrare gli obiettivi di ambientalizzazione, per abbattere le emissioni cancerogene di benzoapirene del processo produttivo per troppo tempo considerato, solo in Italia, uno scotto da pagare per la produzione di acciaio.

Il piano prevedeva anche interventi per tornare alla competitività relativi a settori, come l’automotive, da cui l’Ilva era di fatto uscita. Per tornare a vendere acciaio Bondi era intervenuto anche sul prezzo e questo determinò la fine della sua esperienza. La riconquista di quote di mercato provocò la reazioni di tutti i siderurgici nostrani, che iniziarono a premere sul governo affinché si chiudesse l’esperienza Bondi e vi riuscirono a metà 2014, sostituendolo con Piero Gnudi. Era singolare che gli stessi concorrenti dell’Ilva salutassero positivamente la nazionalizzazione. Generalmente, in questi casi, fanno denuncia alla Commissione Ue. Il colpo di grazia è arrivato con la meteora Guerra che, dopo aver costruito percorsi tutti tramontati prima di nascere (Newco tutta pubblica, poi con fondo di turnaround…), ci lascia solo la sconfessione di tutto il lavoro di chi faticosamente è stato delegittimato nella sala macchine delle crisi e la nomina di qualche dirigente. Ma non era finito il capitalismo relazionale?

Un anno fa i due potenziali acquirenti, ArcelorMittal e Arvedi, avevano manifestato intenzioni diverse ma una comune criticità: ovvero acquistare un’azienda con il cuore produttivo dell’area a caldo sotto sequestro, tema che resta sullo sfondo nonostante i 9 decreti pubblicati dal sequestro del luglio 2012 ad oggi. Con un processo che in tre anni non è ancora partito.

Certo, il ritardo sul cronoprogramma delle prescrizioni Aia non aiuta un clima di conciliazione nel rapporto tra i poteri dello Stato; fatta salva l’autonomia di quest’ultimo, nella confusione e nel dilettantismo della politica il ruolo della magistratura è stato utile, nella prima fase, ad affermare una discontinuità. Ma da tempo bisogna entrare in una fase diversa, di ricostruzione e rilancio ecosostenibile del futuro di Taranto.

Oggi l’Ilva è indebitata, la produzione del 2015 è stata di 4,895 milioni di tonnellate di bramme grezze. Un terzo della capacità di Taranto e poco più di metà di quella prescritta dall’Aia, l’ambientalizzazione è ritardata e i rifacimenti degli altoforni restano le opere più importanti, realizzate, il resto è fermo al palo. Il Governatore della Puglia, solo l’ultimo in ordine di tempo, accortosi dello spessore della vertenza, ha abbandonato l’iniziale saggezza per accodarsi anche lui al battutificio. C’è un ambiente da risanare, decine di migliaia di posti di lavoro a Taranto, Genova, Novi e in tutt’Italia da salvare, c’è la nostra sovranità industriale in gioco, ma soprattutto c’è ancora la possibilità di trasformare inquinamento e ripiegamento industriale nel più grande progetto di ambientalizzazione e rilancio aziendale. Passare dal “mah, al wow” significa anche conciliare acciaio e ambiente come una grande occasione ma, a pochi giorni dal bando che aprirà il percorso di vendita (da chiudere entro giugno), occorre fare presto e finalmente sul serio.

Per un anno tutti certi di ricevere il 1,2 miliardi di euro sequestrati alla famiglia Riva perché illegalmente trasferiti in Svizzera, senza sapere che l’unica certezza è che il Tribunale di Bellinzona ha ricordato che senza una sentenza di primo grado, non avrebbero fatto spostare neanche un euro. Forse era ovvio già prima, eppure? Ma chi si occupa di affari giuridici, può fare simili errori?

Ad oggi delle “tre T” (Terni, Taranto e Termini Imerese) solo a Terni la vertenza Ast è stata chiusa positivamente un anno fa. Su Termini Imerese attendiamo garanzie sul versamento dei restanti 9 milioni di euro da parte di Blutec per l’investimento. Su Taranto come su Portovesme per Alcoa vedremo, quanto ci sarà di vero, sui troppi “potenziali acquirenti” manifestatamente interessati a giocare con la disperazione, in cordate in cui l’unica gara è quella di cercare chi paga, mentre gli altri ci mettono solo furbizia, per risolvere sulle spoglie dell’Ilva i loro problemi. Speriamo che emerga qualcuno che crede ancora nel fare impresa, nel primario industriale italiano, la spina dorsale della nostra industria.


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