Che cosa hanno in comune la sparatoria di San Bernardino del dicembre scorso, l’attentato contro un mall a Baghdad della settimana passata e l’attacco a Giacarta di giovedì? A parte l’autore, lo Stato islamico (affiliati o simpatizzanti che siano), la linea che unisce i punti di queste tre azioni distribuite geograficamente su tre continenti (si scriveranno analisi su questo: “il Califfato è nel mondo”) si lega a chi ha in tutte e tre i casi segnalato per primo che l’autore delle stragi era dell’Isis: ossia Amaq News Agency, una pseudo agenzia giornalistica che arriva prima di tutti gli altri media su certe notizie, perché ha “contatti diretti” con il mondo del Califfato.
Amaq fa attraverso Telegram, app per smartphone coperta da codici di crittografia, esattamente lo stesso lavoro delle maggiori agenzie di stampa del mondo, solo focalizzato sulle azioni dello Stato islamico. “Breaking news” e “esclusive” seguono il linguaggio dei media comuni, esattamente come fanno altre agenzie di governo all’interno di Stati a regime totalitario. Rukmini Callimachi, analista di esteri ed esperta corrispondente dal Medio Oriente del New York Times, sottolinea che i “giornalisti” di Amaq coprono il loro lavoro con una «patina di oggettività», ossia spiega: «Gli aggressori di Jakarta erano descritti come “combattenti dello Stato islamico”, piuttosto che come preferisce l’Isis “soldati del Califfato”. Le vittime sono “cittadini stranieri”, piuttosto che “crociati”».
Dopo i fatti di Giacarta, su Twitter si è creato un dibattito interessante che ha coinvolto la giornalista del NYTimes ed alcuni dei principali esperti di Stato islamico nel mondo: la questione era se definire o meno Amaq come un’entità ufficiale dell’Isis; Callimachi sosteneva che non era legittimo farlo, finché non sarebbe arrivata una dichiarazione definitiva dai media canonici del Califfato.
Amaq News si muove apparentemente in modo indipendente e nuovo rispetto alle altre strutture mediatiche dell’IS finora conosciute, e per ora tutto quello che esce dall’agenzia non ha il sigillo di identificazione del Califfato. I suoi lanci non ricalcano i video dai tratti epici e dal montaggio cinematografico creati a scopo propagandistico da Al Furqan, e non riporta messaggi dal campo tradotti come fa Al Hayat; non recita sermoni sotto forma di notiziari come la radio Al Bayan e non si occupa di proclamare la bellezza della vita quotidiana nel territorio califfale come Fursan al Balagh; esce anche dalla linea dell’ormai notissima rivista mensile Dabiq, altro media che tutto sommato cerca spesso (linguaggio a parte) di esporre gli argomenti raccontati come fosse un’entità terza.
La semantica chiara, il linguaggio asciutto e diretto, di Amaq, però, secondo il New York Times non deve trarre in inganno, perché quella «patina di separazione» che la divide dai fatti, sta pian piano distruggendosi, esponendo i giornalisti dell’agenzia alla cruda verità: sono uomini del Califfato. «È diventata molto più assimilata alle infrastrutture di propaganda dello Stato Islamico, e ora è una parte a pieno titolo e molto importante di esse. È diventata il primo punto di pubblicazione per i crediti di responsabilità da parte del gruppo, anche se questa non è [da prendere] come una regola», commenta al NYTimes Charlie Winter, ricercatore esperto di IS della Transcultural Conflict and Violence Initiative at Georgia State University (era uno di quelli intervenuti nella discussione su Twitter nata dopo i fatti di Giacarta).
Le prime news diffuse da Amaq sono state notate dagli osservatori durante la battaglia di Kobane del 2014, quando diversi dei miliziani dell’IS condividevano le battute dell’agenzia sui propri profili nei social network: si trattava per lo più di informazioni dal campo, dispacci e sviluppi. Successivamente fu proprio un giornalista di Amaq “embedded” ai combattenti dell’Isis a filmare per primo la presa di Palmyra, in Siria, finita lo scorso anno tra i simboli globali dell’avanzata (e della lotta) al Califfato. Finora, solitamente, non venivano invece riportate notizie in merito alle rivendicazioni degli attacchi, come visto fare negli ultimi mesi.
Ora «si stanno comportando come un media di Stato. L’IS si vede come uno Stato, come un paese: e un paese ha bisogno di avere i propri mezzi [di comunicazione]» ha commentato al NYTimes Rita Katz, la direttrice di SITE Intelligence, sito che analizza l’universo comunicativo jihadista, tra i primi a segnalare le attività dell’agenzia.