Favorire la ripresa economica rappresenta l’imperativo categorico di chiunque abbia a cuore le sorti del Paese. Per farlo è indispensabile che aumenti la domanda interna privata, che cresca in attivo il valore della bilancia commerciale, che s’innalzi il livello della domanda aggregata. Così si cresce. L’unica possibilità perché ciò avvenga è quella di avviare una campagna di investimenti pubblici e privati, per alcune decine di miliardi di euro, volta a scuotere dalle fondamenta il sistema economico nazionale. In un libro uscito nel marzo scorso, “Aspettando la crescita” edito da Tullio Pironti, chi scrive propose di convocare degli Stati generali per lo Sviluppo, necessari a scegliere in quali settori strategici concentrare le risorse da mobilitare nel breve periodo, al fine di riavviare la ripresa economica e riconquistare la rilevanza italiana di un tempo nella produzione manifatturiera in ambito continentale.
Oggi, tra le righe di un intervista, rilasciata dal ministro dello Sviluppo economico al quotidiano “la Repubblica”, si legge una notizia che va in tal senso. Federica Guidi ha annunciato che il 10 febbraio si terranno a Roma gli Stati generali dell’industria, chiamati “Manifattura Italia”, convocati per aprire una discussione pubblica sul futuro dell’industria italiana nei prossimi vent’anni. Fin da ora, rispetto all’evento che si terrà il prossimo mese, è bene ricordare quali sono le urgenze che abbisognano di risorse economiche: infrastrutture di rete; piano energetico, piano straordinario per l’edilizia popolare, piano per la sicurezza sismica e idrologica. Altre priorità potrebbero proprio emergere dagli Stati generali previsti per il prossimo mese di febbraio. Una volta individuati gli assi strategici su cui riversare gli investimenti, occorre soprattutto indicare il modo per reperire le risorse utili a sostenerli.
In quest’ottica, si potrebbe mobilizzare una parte, quella non strategica, del patrimonio pubblico nazionale (stimato tra i 1.800 ed i 1.000 miliardi di euro, ndr), considerata immediatamente liquidabile e costituita da immobili, concessioni, crediti e partecipazioni. Come farlo? Attraverso la costituzione di un fondo in cui far confluire la succitata parte del patrimonio (qualche decina di miliardi di euro) e collocando quote dello stesso tra i grandi possessori di liquidità del Paese: assicurazioni, fondi pensione, fondi d’investimento, casse previdenziali, Cassa Depositi e Prestiti. Tale fondo avrebbe il compito di vendere gli “asset” entro un lustro, remunerando i titolari delle quote con un tasso pari a quelli versati per i titoli di stato di eguale scadenza.
L’operazione di cartolarizzazione descritta, per entità e modalità, non creerebbe problemi agli operatori coinvolti e non violerebbe gli impegni assunti coi trattati comunitari. Spetterebbe, quindi, al ministero dell’Economia stabilire la natura giuridica del fondo in questione ed eventuali garanzie ulteriori. Ma sia in un caso che nell’altro, l’auspicata cartolarizzazione servirebbe a finanziare la spesa per investimenti, anziché ridurre esclusivamente il debito pubblico. Si tratta di un’ipotesi che andrebbe programmata con cura e gestita con lungimiranza in uno spazio temporale che è un quarto rispetto a quello previsto in prospettiva dall’assise programmata dal dicastero dello Sviluppo economico. A breve termine è possibile scegliere una strada da percorrere per riagganciare la crescita, privilegiando gli investimenti materiali ed immateriali, rivolti principalmente al settore industriale e a quello manifatturiero, in particolare.