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Quo Vado di Checco Zalone è il manifesto del futuro centrodestra?

Checco Zalone non sarà mai premier ma il suo Quo vado? è un vero e proprio manifesto politico per l’Italia liberale.

Basterebbe che il centrodestra lo esaminasse per bene e avrebbe bello e pronto il nuovo programma elettorale per i prossimi appuntamenti politici. Neanche Renato Brunetta avrebbe saputo descrivere in modo così elegante e dissacrante le inefficienze della pubblica amministrazione e il problema del “postofissismo”. Quo vado? non è un film “renziano”, che guarda con favore al Jobs act, ma svela la bugia di una finta riforma, quella sugli enti locali voluta anche da Graziano Delrio, quando Checco, dopo un pellegrinare, torna nel suo ufficietto e rispondendo al telefono dice: “No, signora. Non è la provincia, questa è l’area vasta. – Che cambia? – Signora non cambia un c…”.

Quo vado? è un film profondamente di destra, una destra liberale e nazionale. Anzi nazional-popolare ma anche provinciale e quindi federalista. È nazional-popolare per quella nostalgia italica che si esprime nel vedere Albano e Romina in tivù cantare insieme a Sanremo. È nazionale quando Zalone difende con orgoglio il made in Italy togliendo la scritta “cucina italiana” dal ristorante gestito dal norvegese che gli presenta la pasta scotta oppure quando vede il tricolore italiano nell’aurora boreale. È provinciale e federalista perché Zalone traduce il norvegese con il “me” tipicamente pugliese ma Quo vado? ha anche due punte di “salvinismo”. La prima si può notare quando Zalone va a lavorare al centro d’accoglienza di Lampedusa e lascia entrare solo i profughi che sanno giocare a pallone. Un po’ come dire: “Tu hai una competenza, ci servi e quindi entri, gli altri restano fuori”. E poi, ovviamente, alla fine del film Zalone aiuta i più sfortunati “a casa loro” comprando il vaccino per tutti i bambini. Cosa c’è di più salviniano del “aiutiamoli a casa loro”?

Volente o nolente Quo vado? è un film politico alla pari del Re Leone ma molto italico e aderente al filone della commedia all’italiana così come delineata da Alberto Sordi. Non c’è solo il macchiettismo del dipendente statale che vive e lavora come un parassita ma anche la sottile critica alla difficoltà che hanno i nostri genitore a guardare oltre il mito del posto fisso. È il padre che glielo ha inculcato e solo l’amore lo farà desistere dall’idea di passare il resto della sua vita dietro a una scrivania a spese dello Stato. Un amore moderno, ma anche antico che passa dalla madre alla futura moglie attraverso la presa in giro del perbenismo di sinistra che vorrebbe sdoganare la teoria gender anche in Italia. Le unioni omosessuali non vengono denigrate ma, con grande eleganza, si fa capire che la promiscuità sessuale non farà mai parte della nostra cultura. Emblematica è la scena in cui i figli della sua futura compagna (uno di colore, una filippina e un norvegese) prendono in giro Zalone perché viva ancora con sua madre e lui, con molto candore, li guarda e dice: “Ah e qui mo’ quello strano sarei io?”.

Ecco, forse, all’elettore di centrodestra, per tornare a votare, basterebbe la promessa dell’attuazione di un programma liberale normale che renda il nostro Paese straordinario.



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