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Islam, tutte le guerre religiose tra Arabia Saudita e Iran

La rottura delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita apre uno scenario nuovo, anche se per nulla inatteso. Il mondo islamico fin dalle sue origini è stato caratterizzato da questa frattura religiosa interna. E la contrapposizione tra sciiti e sunniti rappresenta esattamente la quintessenza storica della dualità che segna in linea generale la relativa distinzione tra interessi nazionali, regionali e geopolitici in tutto il Medioriente.

Non si può dire che l’esecuzione dell’imam sciita Nimr Al-Nimr in Arabia Saudita sia stato un pretesto e neanche si può affermare che la reazione di Ali Khamenei (nella foto a sinistra) sia stata esasperata, sebbene lo scivolare della situazione stia seguendo un crinale pericolosissimo che altera gli equilibri di pace tra tutte le potenze mondiali. La separazione tra sciiti e sunniti affonda le sue radici nel tempo e, per capire, può essere paragonata a quella tra cattolici e protestanti nel mondo cristiano. Sia in Iran che in Arabia Saudita impera la legge islamica, tuttavia nel primo caso la religione è sovrana; nel secondo la politica è sovrana. Il ritiro delle diplomazie iraniane in tutti i Paesi a maggioranza sunnita, e la reciproca ostilità di Teheran verso Riad, accusata di essere sostenitrice del terrorismo, preoccupa comunque, anche se appare ancora uno strumento di trattativa politica, misura muscolare dei reali rapporti di potenza in campo, piuttosto che prodromo di una guerra che coinvolgerebbe più di un miliardo di fedeli.

Il paradosso è che l’Arabia Saudita, alleato economico e politico degli Stati Uniti, in questa fase è meno funzionale agli interessi di Washington di quanto lo sia l’Iran, non soltanto nella lotta politica contro il terrorismo ma anche dal punto di vista strettamente economico. La Repubblica islamica, tuttavia, resta profondamente anti occidentale e legata ad una logica clericale, gerarchica e spirituale nel concepire la politica estera, e profondamente illiberale nella politica interna. È chiaro che a beneficiare in questo quadro è lo Stato Islamico, terzo tra i due litiganti. E a pagare il prezzo più grande è l’Europa vicina geograficamente, sommersa dai flussi migratori, e molto lontana da avere un ruolo di primo piano nella controversia che divide il mondo intero sul Medioriente.

È certo che nella complessa situazione un eventuale orientamento diverso dell’Occidente verso la Russia implicherebbe anche un più positivo atteggiamento verso l’Iran percepito come una minaccia per gli interessi di tutta l’area sunnita, Emirati Arabi e Bahrein inclusi, e quindi non necessariamente come il miglior investimento contro l’Isis. La crisi, alla fine, si risolverà o si aggraverà in dipendenza da come si muoveranno gli Stati Uniti nei prossimi mesi, oltre che, ovviamente, nei prossimi anni con la nuova presidenza. In ciò un unitario, coerente e più disponibile atteggiamento europeo verso la Russia e quindi verso l’Iran, un continente per ovvie ragioni più libero dai vincoli con Riad rispetto all’America, aiuterebbe non poco a determinare una stabilità maggiore e una migliore gestibilità perlomeno degli effetti migratori del terrorismo.

Anche perché per ragioni religiose la violenza di uno Stato Islamico è incompatibile con la visione sciita, non per questo più avanti in materia di diritti umani, mentre non necessariamente lo è con la laicità fondamentalista di una certa parte dell’universo sunnita. La presenza teocratica in Iran di un’autorità suprema di tipo spirituale mette al sicuro non dalla violenza come tale, ma dalla trasformazione violenta dell’Islam in strumento militare. Si tratta di una sottile distinzione, certo, ma, comunque, dell’unico modo occidentale per garantire il primo di tutti gli obiettivi: la distinzione tra trono e altare, tra legge divina e legge di guerra, tra cielo e terra. Un presupposto senza il quale non c’è democrazia possibile.



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