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Come intervenire in Libia contro Isis?

Grande eccitazione ha provocato la lettera inviata all’inizio dello scorso dicembre dal Segretario della Difesa Usa, Ashton Carter (nella foto), a vari suoi colleghi europei, per sollecitarli a intensificare le loro azioni contro il Daesh/Isis in Medio Oriente. Numerose sono anche le notizie di stampa sulle presunte azioni di forze speciali occidentali in Libia. Franco Venturini sul Corriere della Sera ha lanciato un grido di allarme sui ritardi che caratterizzerebbero le decisioni dell’Italia. Essi ci farebbero “perdere il treno”, compromettendo la nostra possibilità di assumere la guida della coalizione destinata a eliminare i miliziani dello Stato Islamico, che da Sirte sono avanzati verso Est, attaccando il terminale petrolifero di Ras Lanuf.

Non ho capito di che treno si tratti. Per ora è alquanto sconquassato. I contatti in corso con gli Usa, la Francia e il Regno Unito hanno posto in luce non solo l’indecisione di tutti, ma anche la mancanza di obiettivi realistici. L’unico che possa interessarci è la stabilità della “quarta sponda”. Per ora ogni intervento è stato subordinato alla ormai “mitica” unità del governo libico, in modo da avere le carte in regola sul fronte della legalità internazionale e la benedizione dell’Onu. La decisione d’intervenire militarmente non dipende però da disquisizioni di tipo giuridico, ma dalla previsione che i costi e i rischi che si corrono siano compensati dai benefici dell’intervento.

Tale valutazione è stata probabilmente effettuata. Non è stata però resa pubblica, forse anche per celare all’opinione pubblica che un intervento volto veramente a stabilizzare la Libia – che, come accennato è l’unico obiettivo che possa giustificarlo dal punto di vista nazionale – sarebbe ben più costoso e rischioso, anche in termini di durata, di quanto si pensi. Per tranquillizzare l’opinione pubblica, si è insistito sull’effetto taumaturgico di un governo di unità libico. Si è anche affermato che l’intervento si limiterebbe a qualche bombardamento aereo e raid di forze speciali. Essi potrebbero, tutt’al più, contenere l’Isis e impedire che s’impadronisca completamente del ricco mercato del traffico di esseri umani. Ma per creare la stabilità almeno sulla costa (dell’interno è meglio non parlare), l’impegno dovrebbe essere maggiore.

Tre sono i motivi principali che mi rendono perplesso circa l’opportunità dell’Italia di imbarcarsi, almeno per ora, in un’avventura sulla “quarta sponda”. Il primo è che i miliziani dell’Isis sono combattenti fra i più “tosti” che si siano visti nella storia militare. Basta esaminare come si sono difesi a Tikrit o a Ramadi. Le autobombe guidate da combattenti suicidi non sono un’eccezione. Vengono impiegate a sciami. Difendersi da esse comporterebbe l’adozione di tattiche da “terra bruciata”. Non si può combattere contro i barbari guerrieri con regole cavalleresche. Con esse, non si potrebbero neppure dissociare gli jihadisti dalle milizie locali. La loro maggior parte ha interesse a mantenere la situazione di caos.

In secondo luogo, la costituzione di un governo unico in Libia (ammesso ma non concesso che non se ne aggiunga un terzo ai due già esistenti) non ridurrà la forza delle milizie locali e tribali, spesso collegate con la criminalità organizzata, che controllano l’intero territorio. Dubito comunque che una parte consistente di esse possa essere convinta a combattere l’Isis.

In terzo luogo, e forse questo è il motivo principale che dovrebbe consigliare una grande cautela, non sono affatto sicuro, checché ne dica Ashton Carter, che gli Usa intendano veramente distruggere l’Isis. Lo dimostrano, a parer mio, le regole d’ingaggio estremamente limitative imposte all’aeronautica Usa. Washington si trova poi in una situazione a dir poco complessa. Le migliori fanterie di cui dispone sono quelle curde sia siriane che irachene. Ma non possono utilizzarle appieno per il timore di perdere il sostegno della Turchia. L’intervento russo in Siria, malgrado i suoi successi tattici, non porterà alla distruzione dell’Isis. Rappresenta invece per gli Usa la “ghiotta” opportunità di vedere Mosca sempre più impegolata nel ginepraio siriano.

I miei dubbi sulla reale politica statunitense sono certamente condivisi da Israele. Ciò spiega perché abbia reagito con tanta cautela e moderazione all’attacco dei miliziani dell’Isis, che avevano ucciso un loro soldato e ferito altri tre sulle alture del Golan. Una simulazione ad alto livello effettuata all’Istituto Israeliano di Studi Strategici (l’equipe che rappresentava gli USA era guidata dal generale Allen, già consigliere di Barack Obama per la coalizione a guida Usa) è giunta alla conclusione che la posizione USA rimarrà fluida almeno fino alle prossime elezioni presidenziali. Se non esiste il completo appoggio americano – e non ci sarà certamente prima di novembre – meglio per l’Italia starsene a casa, continuando le consultazioni e le schermaglie diplomatiche, nella speranza che qualcosa muti in Libia. Il pericolo attuale non è quello di “perdere il treno”, ma che qualcuno voglia prenderlo anche prima dell’elezione del nuovo presidente americano.



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