Ormai a due anni dalla fine della Legislatura, e di fronte alla prossima tornata amministrativa, gli equilibri politici della maggioranza cominciano a produrre dei sonori scricchiolii.
Ad alimentare veramente il dibattito, all’interno del Pd, non sono stati Pierluigi Bersani e Roberto Speranza, eminenti rappresentanti della minoranza, ma un padre storico del partito: Massimo D’Alema.
L’ex presidente del Consiglio, non nuovo a critiche dure all’attuale dirigenza, ha lanciato uno strale molto tagliente contro Matteo Renzi. Le sue argomentazioni sono rilevanti anche per l’intelligenza e l’acutezza che lo caratterizzano, e si possono riassumere in due punti principali.
In primo luogo, D’Alema ha invitato a prendere atto del malessere molto diffuso a sinistra, che si traduce in disaffezione, astensionismo e volontà di creare nuove liste e nuovi gruppi. Ciò significa non solo perdita di voti, ma anche possibili scissioni. Una tendenza giudicata sbagliata perché il fine è, secondo lui, il ricompattamento del centrosinistra, partendo proprio da quelle radici di sinistra che Renzi avrebbe reciso.
In secondo luogo, egli ha contestato l’opzione renziana a favore del centro, che si è tradotta in una collaborazione di governo ormai consolidata con Angelino Alfano e adesso con il ricorso ai verdiniani. Si tratterebbe di un’opzione strategicamente sbagliata, perché incapace oltretutto di integrare i voti mancanti che sono perduti a sinistra.
Insomma, D’Alema mette la questione da un punto di vista non tattico, ma strategico, e punta l’indice contro una linea politica del presidente del Consiglio ritenuta inaccettabile.
L’idea che ha in mente D’Alema è radicalmente diversa rispetto a quanto ispira Renzi, nelle premesse e nelle finalità. Ciò dimostra che la rottamabilità del primo da parte del secondo non è tanto semplice.
Si possono riconoscere, in definitiva, due modi distinti di concepire la sinistra, all’interno e all’esterno del Pd, con alle spalle due lunghe tradizioni. D’Alema vede il centrosinistra come una coalizione di formula con la presenza al vertice un nocciolo duro costituito dal ruolo del suo partito. Ci si allarga a sinistra o al centro, ma sempre partendo dalla continuità con un pacchetto di idee che sono quelle storiche e permanenti: uguaglianza, alternativa democratica, riferimento preciso ad una base sociale giudicata omogenea nel tempo. D’Alema pensa, insomma, ad una sorta di sinistra eterna che evolve senza snaturarsi.
Renzi, viceversa, pensa sì ad una politica riformatrice di avanzamento democratico, issata su un chiaro ruolo attivo della politica, incarnata da se stesso e dalla propria classe dirigente, ma scommette su un progetto senza identità sociale predeterminata, interpretando così la società per quello che è oggi, una realtà dinamica, molto mutata rispetto al passato e in perenne divenire.
Il legame di Renzi con il centro non è di alleanza, ma di condivisione di una prospettiva, e si articola guardando alla percorribilità concreta di alcune riforme indispensabile per il Paese, le quali non possono essere rallentate da conservatorismi di sinistra, soprattutto in un momento di profonda crisi del centrodestra.
Ora se questa divaricazione è in qualche maniera fisiologica, la grande sfida riguarda soprattutto Renzi, non D’Alema. Per età e per audacia il primo deve trovare un futuro, mentre il secondo ha un passato che basta di per sé a soddisfare ogni esigenza.
Le vere domande inevase sono pertanto le seguenti. Riuscirà Renzi a presentarsi alle politiche del 2018 ancora alla guida del suo partito? E, ancor più, come organizzerà in senso progettuale quell’area di governo, sorretta dal centro, nel quadro di un partito le cui redini sono tenute ancora da una minoranza che ha tutte e due i piedi dentro?
La forza di Renzi attualmente è di fare alcune cose che servono al Paese, senza badare se siano di destra o di sinistra, secondo lo schema classico della socialdemocrazia italiana. Ma domani? Senza un progetto organico che ne sarà del centro che garantisce la percorribilità delle riforme?
Se non sembra probabile la creazione di un soggetto politico renziano diverso dal Pd, allora è indispensabile che egli trasformi il Pd in un partito tutto suo. La posta in gioco, quindi, sta tra chi resta e chi se ne va, visto che tutti insieme è molto difficile che rimangano uniti. E Renzi ha bisogno del suo partito, oltre che degli alleati, tanto quanto una parte autorevole e considerevole del suo partito sembra non aver bisogno di lui, ma della sinistra radicale.