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Forse a questo punto lo Stato islamico non è più così forte e perde territorio

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I bilancia a fine 2015 parlavano di una riduzione del territorio controllato dallo Stato islamico di circa il 14 per cento. Attualmente gli stessi dati dicono che l’Isis non controlla più circa un quinto delle aree che amministrava a gennaio di un anno fa; ossia è in corso un trend in contrazione che vale un ulteriore 6 per cento di territorio nel giro di tre mesi.

ATTACCHI MIRATI AMERICANE

Nel giro di poche settimane gli Stati Uniti avrebbero ucciso o colpito due importanti leader dello Stato islamico: Omar il Ceceno, comandante militare dall’alone epico, e Abu Athir al Absi, figura centrale dell’organizzazione fin dai tempi dell’esportazione del brand in Siria.

Il primo è stato preso di mira nel nord siriano, probabilmente mentre si dirigeva con un convoglio di aiuti a dare sostegno ai suoi uomini (il Ceceno è il ministro della Guerra dell’IS) a Shaddadi, cittadina di collegamento tra il Kurdistan siriano e la capitale del Califfato, Raqqa. Là i baghdadisti stanno perdendo terreno davanti ad una coalizione di ribelli, dove i curdi Ypg hanno peso maggioritario, sostenuti dai raid americani e da un impegno a terra molto discreto di unità di forze speciali. La base di Rmeilan improvvisata dagli americani fa da background a queste operazioni ed è in previsione la costruzione di altre strutture mobili su due nuovi punti di appoggio (notare che a Rmeilan si sono riuniti i politici curdi per annunciare la nascita della confederazione nel Rojava, e dunque possibile che gli americani nonostante tutto siano d’accordo come controparte politica all’impegno militare). Al Absi invece è stato colpito nella zona di Aleppo, dove prima della tregua del 27 febbraio gli americani quasi non mettevano più mano, anche per la paura di intralciarsi con i caccia russi invece molto attivi nell’area, e pure per non passare noie politiche dato che Mosca stava colpendo senza troppe distinzioni intorno alla città.

IL RAID CONTRO IL CAPO DELLE ARMI CHIMICHE IN IRAQ

Lo scorso mese la Delta Force americana in uno degli sporadici blitz sul campo, ha catturato il responsabile del programma armi chimiche dello Stato islamico. L’operazione è avvenuta a Tal Afar, area occidentale di Mosul, ossia un pezzo di territorio al centro del Califfato (là a breve andranno i soldati italiani a difendere i lavori di sistemazione della grande diga). Mosul è puntualmente in cima alla lista degli obiettivi più colpiti dai raid aerei americani comunicati giornalmente dal Pentagono, e da qualche settimana si parla del fatto che le operazione per riconquistare la roccaforte irachena dell’IS siano già iniziate (a parte gli annunci ufficiali, lo confermano alcune battaglie di avvicinamento; il dislocamento di reparti speciali, anche italiani, per il recupero dei feriti ad Erbil, nel Kurdistan iracheno poco a nord, e  ovviamente il passo più intenso dei bombardamenti).

LA COMPETIZIONE RUSSA

Mosul  e Raqqa sono i grandi obiettivi degli Stati Uniti per il 2016, una sorta di legacy che Barack Obama vorrebbe lasciare nella lotta al terrore. Le operazioni preparatorie stanno andando bene, e forse anche per questo Mosca s’è messa in competizione. Per avere un ruolo chiave nelle dinamiche del conflitto siriano, e dunque accreditarsi alla Comunità internazionale, la Russia deve combattere lo Stato islamico in modo più credibile. L’intervento, adesso rimodulato, ha dato conforto a Bashar el Assad, un personaggio scomodo e controverso, di cui forse al Russia ha iniziato a stancarsi: le ultime uscite del regime di Damasco, diventato più baldanzoso per le conquiste territoriali ottenute grazie all’aiuto russo, sono imbarazzanti per il Cremlino (le elezioni proclamate per il 13 aprile, l’annuncio di volere riconquistare tutto il paese, il perpetrato atteggiamento di sfida e disinteresse nei confronti dei negoziati Onu), che è da tempo frustrato anche per il rapporto con l’Iran, troppo ideologizzato. Il parziale rientro del contingente russo potrebbe permettere ai diplomatici di avere mani più libere durante i negoziati (ossia muoversi senza il peso di Siria e Iran) e ai generali di Mosca di concentrarsi sull’IS. Ora le operazioni si sono rivolte su Palmira, la città storica nel deserto siriano: strapparla al Califfato avrebbe un significato simbolico, cioè essere coloro che hanno liberato il patrimonio dell’umanità dai barbari del terrore, ed uno strategico, perché permetterebbe l’avvicinamento alla zona di aderì Ezzor, pozzo economico del Califfato da cui partono i camion del greggio e entrano i proventi per sostenere la guerra.

IL CALIFFO SOFFRE

Lo Stato islamico si trova stretto tra una campagna massiccia che arriva da ovest diretta dai russi e una più felpata americana che arriva da nord. Il capo delle armi chimiche, il Ceceno, al Absi, sono obiettivi centrali, e anche se l’uccisione degli ultimi due dovesse non essere confermata, sono l’indizio che una Washington sta ottenendo buoni feedback di intelligence, probabilmente a terra. Pare che l’abbinamento di azioni mirate contro i leader e massicce operazioni a terra è il sistema per battere lo Stato islamico. Queste avanzate collegate ma non coordinate, abbinate a qualche scelta sbagliata dei baghdadisti dal punto di vista militare, fanno soffrire il Califfo, che reagisce con le stragi come quelle viste a Damasco poco più di un mese fa.

 

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