Skip to main content

Massimo D’Alema, Enrico Letta e i sassolini di Luciano Violante

Pur separati da ben 17 anni di età, oltre che da origini politiche diverse, l’uno provenendo dal Pci e l’altro dalla Dc, Massimo D’Alema ed Enrico Letta hanno accolto con la stessa amarezza, e con il sospetto di esserne entrambi i destinatari, la lunga e spietata analisi della situazione del Pd affidata il 23 marzo scorso dal loro amico e compagno di partito Luciano Violante al Corriere della Sera, pur nel contesto di un ragionamento più generale, riguardante anche la capacità, o incapacità, di rigenerazione del centrodestra. Un’analisi passata quasi inosservata per la prevalenza delle cronache e delle polemiche sull’Europa aggredita dal terrorismo islamista.

++++

D’Alema compirà il 20 aprile, vigilia del 2.769.mo Natale di Roma, i suoi “soli” e modesti 67 anni, durante i quali ha avuto il tempo e il modo di essere, fra l’altro, due volte presidente del Consiglio, sia pure per meno di due anni complessivi, una volta ministro degli Esteri, una volta capogruppo alla Camera, segretario del proprio partito, presidente di una commissione bicamerale per la riforma costituzionale e presidente del comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti: una carriera di tutto rispetto, che lo portò nel 2006 anche ad un passo dal Quirinale, se Silvio Berlusconi, cedendo ai consigli di Giuliano Ferrara, avesse voluto dargli una mano dai banchi dell’opposizione, dove era appena tornato per la pur stentata vittoria elettorale dell’Unione-ex Ulivo di Romano Prodi.

Ma l’allora Cavaliere di Arcore non se la sentì. E dal cilindro di quel sornione di Pier Ferdinando Casini, dietro le quinte ma non troppo, comunque sempre dal campo del centrodestra che aveva appena governato per cinque anni, uscì l’apertura alla candidatura di Giorgio Napolitano, già comunista come D’Alema, ma meno esposto e più anziano, quasi ripescato dalla giubilazione appena ottenuta con un laticlavio, conferitogli l’anno prima dall’allora capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi.

Per D’Alema, che peraltro aveva già scalato inutilmente la presidenza della Camera, dove la coalizione cosiddetta di centrosinistra gli aveva preferito Fausto Bertinotti, fu un colpo abbastanza duro. E, franco com’è, e com’è giusto riconoscergli, non nascose il suo umanissimo risentimento scontrandosi poco dopo in televisione proprio con Casini, sia pure in una discussione su problemi del tutto diversi dalla corsa appena fallita al Quirinale.

++++

Enrico Letta – nipote dell’inizialmente più noto e sicuramente più navigato Gianni, passato dal giornalismo alla regìa della politica come braccio destro di Berlusconi a Palazzo Chigi e a Palazzo Grazioli – compirà il 20 agosto prossimo solo 50 anni, dei quali due trascorsi come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Romano Prodi, un anno e mezzo come ministro dell’Industria nel primo governo di D’Alema, poco più di un anno come ministro per le politiche comunitarie nel secondo governo D’Alema, tre anni e mezzo come vice segretario del Partito Democratico con Pier Luigi Bersani segretario e meno di un anno, infine, come presidente del Consiglio, bruscamente sostituito nel febbraio del 2014 da Matteo Renzi, ancora fresco di elezione a segretario del partito e, soprattutto, di un promettente accordo con una parte dell’opposizione, quella guidata da Berlusconi, sulle riforme costituzionale ed elettorale. Fu l’ormai famoso Patto del Nazareno, schiantatosi dopo poco più di un anno contro lo scoglio emerso con l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale.

L’allontanamento da Palazzo Chigi fu per Enrico Letta, come per Massimo D’Alema nel 2006 sulla strada del Quirinale, un colpo molto duro, neppure esso dissimulato davanti alle telecamere con uno sbrigativo e per niente gradito scambio del campanello d’argento del Consiglio dei Ministri, senza alcuna traccia di quella “serenità” beffardamente garantitagli da Renzi poche settimane prima, mentre già si preparava il cambio della guardia. Un cambio peraltro deliberato in una semplice riunione della direzione del partito e con una ratifica tanto rapida quanto anomala – bisogna ammetterlo – del presidente della Repubblica Napolitano, pur contrario negli anni passati come parlamentare e dirigente del Pci alla pratica delle crisi di governo extraparlamentari. Così si chiamavano, nel lungo arco della cosiddetta Prima Repubblica, quelle maturate, esplose e risolte nei partiti, fuori dalle aule parlamentari, dove il nuovo governo di turno si presentava solo per chiedere e ottenere una fiducia generalmente scontata, negoziata in tutti i particolari tra le forze politiche della maggioranza.

Erano stati davvero pochi gli imprevisti, come il naufragio parlamentare del primo governo di Amintore Fanfani, cui nel 1954 fu negata la fiducia dell’insediamento, e la tempesta parlamentare che nel 1978 rischiò il secondo governo monocolore democristiano di cosiddetta solidarietà nazionale guidato da Giulio Andreotti. Dove i comunisti di Enrico Berlinguer trovarono confermati all’ultimo momento due ministri – Antonio Bisaglia e Carlo Donat Cattin – di cui avevano chiesto la rimozione. La tentazione del Pci di mandare tutto all’aria la mattina del 16 marzo, quando il governo si presentò alle Camere, svanì di fronte al trauma politico e umano del tragico sequestro appena avvenuto di Aldo Moro, il presidente della Dc artefice di quel passaggio politico voluto per passare dall’astensione all’appoggio dei comunisti al governo, con tanto di voto di fiducia.

++++

Pur così diversi per età ed esperienza, come dicevo, Massimo D’Alema ed Enrico Letta sono in qualche modo riconoscibili nella convinzione espressa da Luciano Violante sul Corriere della Sera che “senza l’egoismo dei vecchi”, troppo a lungo consideratisi “i più scaltri e quindi insostituibili”, non ci sarebbe stata nel Pd la “rottamazione” dolorosamente compiuta da Matteo Renzi, fra le inutili proteste degli esclusi dietro “i vetri appannati della memoria e della storia”. Esclusi ai quali ora non resta che scegliere fra una improbabile e vera competizione, come quella che stanno conducendo negli Stati Uniti i non giovani aspiranti alla candidatura alla Casa Bianca, e la rassegnazione ad “uno spazio di riflessione e di intervento, se richiesti”. Altrimenti “il rischio è di diventare penosi”.

Veramente tosto, questo Violante, anche a costo di procurarsi il sospetto, a torto o a ragione, di avere voluto togliersi qualche sassolino dalle scarpe per avere visto i suoi vecchi compagni di partito, e relativi seguiti, adoperarsi ben poco, nell’autunno del 2014, a sostenerne la candidatura parlamentare a giudice costituzionale. Cui dovette rinunciare dopo una lunga serie di tentativi boicottati a scrutinio obbligatoriamente segreto dai soliti “franchi tiratori”.


×

Iscriviti alla newsletter