Cresce la pressione sulla Casa Bianca per dare il via libera a opzioni militari che intensifichino l’impegno americano in Libia, innalzandolo a un livello medio. Nelle scorse ore, sulla scrivania dello Studio Ovale è finito un piano elaborato dal Pentagono per colpire una quarantina di obiettivi dello Stato islamico nell’ex Regno di Muammar Gheddafi, individuati dopo mesi di missioni di ricognizione aerea e intelligence sul terreno. Ma il presidente Barack Obama sembra voler prendere tempo e scartare ancora i suggerimenti del Dipartimento della Difesa guidato da Ashton Carter.
LE PERPLESSITÀ DI OBAMA
Il numero uno del Pentagono, racconta il New York Times, prima testata a darne notizia ieri, ha illustrato le opzioni ai top national security advisers del capo di Stato in un incontro tenuto il 22 febbraio. Ma, aggiunge il quotidiano citando fonti interne alla Casa Bianca, l’amministrazione Obama non considera, almeno per ora, i suggerimenti dei militari, perché intenzionata a portare avanti l’iniziativa diplomatica per formare un governo di unità nazionale in Libia.
Per il momento, sottolinea il Nyt, le Forze degli Stati Uniti effettueranno attacchi aerei limitati contro i jihadisti nella nazione nordafricana solo quando saranno minacciati cittadini o interessi americani, come avvenuto in un campo di addestramento nella parte occidentale del Paese il mese scorso.
Una strategia per certi versi già rilanciata pubblicamente dal portavoce di Obama, John Earnest, che in un incontro con i giornalisti tenuto a inizio febbraio aveva rivendicato quanto fatto finora da Washington, delimitando l’impegno degli Usa nell’ex Regno di Muammar Gheddafi: “Gli Stati Uniti – spiegò Earnest – sono stati parte attiva nel tentativo di aiutare i libici a formare un governo centrale, ci sono stati progressi su questo fronte”. Gli Usa non sono stati fermi, ma hanno “preso provvedimenti contro lo Stato Islamico in Libia, comprendenti una serie di raid che hanno eliminato leader di alto livello del gruppo jihadista nel Paese”. Poi però ha aggiunto che, sulla scia di quanto fatto finora in Siria e in Iraq, qualsiasi futuro intervento americano in Libia non dovrebbe includere un dispiegamento significativo di truppe di terra americane, ma mirare piuttosto a un supporto, anche d’intelligence, a chi combatte sul terreno i drappi neri.
LE PRESSIONI DEL PENTAGONO, LE RIFLESSIONI DELLA CASA BIANCA
Il piano finito sulla scrivania di Obama, rammenta il Nyt, non è che l’ultima delle pressioni che l’intelligence, il Pentagono e lo Stato maggiore della Difesa Usa (guidato dal generale Joseph Dunford) operano sul presidente democratico per intervenire con vigore in Libia. Alla base delle valutazioni di chi chiede di intervenire c’è la convinzione che il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi abbia deciso di spostare nel Paese nordafricano il centro di alcuni interessi dell’organizzazione terroristica islamica e che di conseguenza il numero di jihadisti dell’Isis nel Paese stia esponenzialmente aumentando (si stima che al momento possano essercene tra i 5mila e i 6500, anche se alcuni addetti ai lavori come Karim Mezran, analista esperto di Libia dell’Atlantic Council, le considerano esagerate).
Di contro Obama, che ha fatto finora dello scarso interventismo Usa una cifra del suo mandato e un motivo di orgoglio, teme che da una parte un’accelerazione degli sforzi militari possa pregiudicare il lungo e complesso sostegno negoziale per la nascita di un esecutivo nazionale; dall’altro che imbarcarsi in un’operazione della quale non siano ancora chiari tempi e contorni sia un’ipotesi da scartare (considerato anche, rimarcano alcuni osservatori, che il capo di Stato è ormai alla fine del suo secondo mandato).
I PRECEDENTI
Quello col Pentagono non è stato per Obama un rapporto facile. Non è infatti la prima volta che il presidente democratico non si trova d’accordo con quanto gli viene proposto dal mondo militare e dell’intelligence. Robert Gates, suo segretario della Difesa dal 2008 al 2011, lo ha pesantemente attaccato per il suo pressapochismo e inefficienza. Nel 2014, nel suo nuovo libro “Worthy Fights: A Memoir of Leadership in War and Peace”, l’ex numero uno della Cia Leon Panetta non era stato tenero con il Commander in chief Usa e in particolare con il suo “cerchio magico”, accusato di aver sabotato ogni possibilità di negoziare con il governo iracheno la permanenza di truppe americane nel Paese oltre il 2011. Una misura che per l’ex segretario della Difesa e numero uno della Cia avrebbe evitato che sul territorio di Baghdad si acuisse la tensione tra sunniti e sciiti, terreno fertile per l’ascesa del Califfato di al-Baghdadi in Siria, Iraq e non solo.
E anche il suo terzo segretario della Difesa, l’ex-senatore repubblicano Chuck Hagel, superdecorato nella guerra del Vietnam, è stato “dimissionato” dal suo incarico dopo meno di due anni nel 2014.
Mentre in seguito il generale in pensione John Allen, incaricato da Obama di coordinare le operazioni contro l’Isis, aveva manifestato a settembre 2015 l’idea di abbandonare l’incarico perché frustrato dall’atteggiamento della Casa Bianca nella lotta allo Stato islamico (sentimento smentito dallo Studio Ovale, ma poi il militare è stato sostituito ad ottobre da Brett McGurk).