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Il mio ricordo di Marco Biagi

Marco BIAGI

Il 19 marzo 2002 ero a Roma, in casa mia. Mentre lavoravo al computer seguivo distrattamente alla radio la cronaca di una partita di calcio. Ricordo soltanto che giocava la Roma. Nell’intervallo  venne trasmessa la notizia che il professor Marco Biagi era stato assassinato a Bologna. Da allora la mia vita è cambiata. Marco ed io ci conoscevamo e ci frequentavano da circa trent’anni; tanti aspetti delle nostre vite (l’essere allievi dello stesso Maestro, appartenere al medesimo partito, interessarci, sia pure da angoli di visuale e professionali diversi, delle stesse materie e godere di una stima e di una amicizia reciproche) ci hanno fatto camminare lungo binari certamente paralleli, mai distanti, al punto che tra noi lo scambio di esperienze era frequente e fecondo.

Il mio indimenticabile amico oggi avrebbe quasi  66 anni. Mi sono chiesto tante volte come avrebbe trascorsi  tutto questo tempo. Senz’altro avrebbe visto crescere Francesco e Lorenzo, fiero delle soddisfazioni che gli avrebbero dato. L’amore di un’intera vita tra lui e Marina avrebbe conosciuto una nuova stagione, volgendosi verso quei legami di solidarietà e di sostegno reciproco che, stando insieme, ci fanno accettare di diventare anziani. Tra qualche anno, forse, avrebbe avuto il piacere di diventare nonno.

Mi riesce difficile, invece, immaginare quale sarebbe stato il suo percorso professionale. E, cioè, se Marco avesse continuato nella sua attività di docente, organizzatore di iniziative culturali, consigliere ascoltato ed insostituibile di ministri, oppure se – come altri giuristi prima di lui (Gino Giugni, Tiziano Treu) – si fosse lasciato tentare dal richiamo  della politica ‘’fatta’’ in prima persona in Parlamento  o in una importante  funzione  istituzionale.

So per certo, anche per esperienza personale, che il ‘’contesto’’ a cui ciascuno appartiene non perdona mai chi ha avuto una visione anticipatrice. Anche quando tutti si adeguano alle novità, anche quando le loro idee si affermano, coloro che le hanno preconizzate per primi continuano a portare sulle spalle la croce della responsabilità di aver rotto con le loro intuizioni una cortina di certezze garanti di un tran tran politico, scientifico, culturale  e persino umano. Biagi aveva capito che gli ‘’innovatori’’ – come era lui – sono ‘’uomini da bruciare’’. E in quel clima dei primi anni duemila dominato da un ideologismo impazzito perché avvertiva la fine prossima  del suo mondo, Marco aveva intuito quale sarebbe potuto essere il destino di una persona costretta a trasformarsi in un simbolo. Ma non era arretrato  di un passo dal suo dovere anche a costo di essere chiamato a ‘’rendere testimonianza’’ (che è poi il significato vero del ‘’martirio’’).

In una delle tante lettere alle autorità chiamate (inutilmente) a provvedere alla sua sicurezza, Biagi assicurava al ministro del Lavoro, Roberto Maroni, che, nonostante le ricorrenti minacce, non intendeva ‘’desistere dalla mia attività di collaborazione con Lei e con il Ministero’’. Ma il suo vero testamento morale sta tutto in quell’ editorialino (“Il dado è tratto) che venne pubblicato postumo, del quale riporto il passaggio essenziale (premonitore del tragico destino che lo attendeva): “Ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando anche prezzi alti alla conflittualità’’. Il prezzo pagato da Marco (e dai suoi cari) è stato il più alto di tutti. Egli ci ha insegnato, però, che l’esistenza umana (di cui la morte è solo un episodio) non avrebbe un  senso compiuto se non fosse animata da valori e principi  in nome dei quali si è pronti a perdere tutto.

 

 

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