Le preoccupazioni di operai e tecnici sulla tenuta occupazionale degli impianti petroliferi dell’Eni in Val d’Agri e nelle tante aziende del loro indotto – in Basilicata anche sotto il profilo impiantistico esiste il maggior distretto del comparto in Italia – stanno fortemente crescendo in questi giorni, alimentando la mobilitazione di addetti e Istituzioni locali per sollecitare alla Magistratura potentina, nel pieno rispetto delle sue funzioni, una particolare attenzione per i problemi del lavoro.
Com’è noto, il sequestro ‘senza facoltà d’uso’ delle strutture non consente l’estrazione di 75mila barili di petrolio al giorno, il 60% dei quali di pertinenza della holding controllata dallo Stato, ma quotata in Borsa e pertanto con una significativa partecipazione di azionariato privato italiano ed estero. Se tale blocco si protraesse ancora, in particolare con il diniego della facoltà d’uso, sotto il profilo occupazionale le conseguenze a breve, ma anche a medio e lungo termine su operai, tecnici, quadri e dirigenti impiegati su quegli impianti sarebbero sempre più pesanti. E tutte le attività dell’indotto – fra imprese impiantistiche, di montaggi, di trasporto, di ingegneria ma anche di ristorazione – subirebbero perdite ancor più gravi di quelle già sostenute.
Ora, se fossero accertate (esclusivamente nelle sedi giudiziarie) responsabilità individuali penalmente perseguibili, è giusto che esse vengano sanzionate ai sensi del codice penale. Ma nel frattempo, un sequestro senza ‘facoltà d’uso’ degli impianti, rischierebbe di ledere un interesse altrettanto legittimo come quello al lavoro, di eguale rilevanza costituzionale rispetto all’altro riguardante la tutela della salute. E la nostra Costituzione tutela anche il diritto dell’impresa.
A noi sembra che l’estrema complessità del profilo giudiziario delle vicende in Val d’agri possa assimilarsi per tanti aspetti a quanto già accaduto all’Ilva di Taranto, quando il Gip dispose con l’ordinanza del 25 luglio 2012 – notificata all’azienda il giorno successivo – il sequestro senza facoltà d’uso dell’area a caldo del Siderurgico. Una situazione che, nei fatti, non portò al blocco della produzione per la complessità tecnica legata allo spegnimento degli altiforni; e tuttavia, prolungandosi uno stato di incertezza sull’ordinario esercizio dell’area a caldo, a seguito anche di altri provvedimenti giudiziari successivi all’ordinanza del 25 luglio – il Governo Monti emanò il decreto legge 207 del 3.12.2012, poi convertito nella legge 231 del 24.12. dello stesso anno. In essa all’art. 1 si prevedeva che – anche in caso di disposizione di sequestro giudiziario degli impianti – l’esercizio dell’attività potesse essere proseguito per un tempo non superire a 36 mesi, e nel rispetto delle prescrizioni dell’Aia, se: a) fosse riconosciuto “l’interesse strategico nazionale” dello stabilimento in questione; b) se esso occupasse almeno duecento persone; 3) se la prosecuzione della sua attività fosse indispensabile per la salvaguardia dell’occupazione e della produzione.
Pertanto l’esercizio dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto, classificato di “interesse strategico nazionale”, pur restando sotto sequestro, proseguì anche quando il Gip di Taranto sollevò di fronte alla Consulta diverse questioni di legittimità della legge 231/2012, in particolare per il presunto vulnus all’art. 32 della Costituzione riguardante il diritto alla salute che, secondo il Giudice rimettente, non è passibile di bilanciamento con il diritto al lavoro, avendo preminenza assoluta sullo stesso. Com’è noto, invece, la conseguente pronuncia della Corte Costituzionale della primavera del 2013 – di inammissibilità e di infondatezza delle questioni di legittimità sollevate – se da un lato aveva assicurato la facoltà d’uso dell’area a caldo sequestrata, al punto 9 del suo dispositivo aveva chiarito che la salute e il lavoro sono diritti fondamentali che “si trovano in un rapporto di integrazione reciproca, tale da non poter individuare la prevalenza in assoluto a nessuno dei due, perché” – scrivevano ancora i Giudici della Corte – “se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei due diritti, che diventerebbe tiranno delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette che costituiscono nel loro insieme espressione della dignità della persona”.
Allora, anche a proposito del sequestro degli impianti petroliferi in Val d’Agri senza facoltà d’uso – ove ricorressero come peraltro ci sembra evidente – le condizioni previste dalla normativa appena richiamata, non potrebbe applicarsi quanto disposto dalla legge 231/12, a proposito dell’Ilva e di ogni altro sito produttivo classificabile di “interesse strategico nazionale”? Non potrebbe cioè il Governo assumere una disposizione che, pur conservando il sequestro cautelativo degli impianti per consentire agli inquirenti di accertare sino in fondo i reati ipotizzati, non ne impedisca tuttavia il funzionamento che assicura occupazione e reddito a migliaia di addetti?
Ma c’è un altro precedente che potrebbe offrire elementi di valutazione alla Procura di Potenza e riguarda quanto accaduto alcuni anni orsono nel grande stabilimento della Versalis di Brindisi. In quella occasione la Procura locale pose sotto sequestro le altissime torce di quella fabbrica – a causa di numerose sfiammate ritenute pericolose e nocive – concedendo però la loro facoltà d’uso (l’impedirlo avrebbe paralizzato il sito, con drammatici effetti occupazionali) e ingiungendo all’azienda l’adempimento di precise prescrizioni di ammodernamento tecnologico delle strutture poste sotto sequestro e il versamento di una fidejussione di elevato importo, escutibile a prima richiesta, a garanzia della completa esecuzione degli interventi di adeguamento degli impianti a quanto prescritto dal perito del Magistrato inquirente.
A nostro avviso, allora, è bene che tutti, nessun escluso, riflettano su questi precedenti e valutino la praticabilità di quanto possibile e necessario per tutelare le esigenze cautelari, ma anche il diritto al lavoro di circa 4.000 persone in Basilicata.