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Renzi, il Corriere della Sera e Repubblica. Una storiella italiana

Come prova del logoramento che starebbe subendo Matteo Renzi dopo l’affare del petrolio lucano, le dimissioni della “parte lesa” Federica Guidi da ministro dello Sviluppo economico e le polemiche con gli inquirenti di Potenza, incapaci di arrivare nelle loro ricorrenti iniziative ad una sentenza vera, cioè definitiva, è stata citata la delusione espressa mercoledì 6 aprile dal Corriere della Sera in un editoriale di Ernesto Galli della Loggia.

Come prova, quel fondo titolato “La stagione delle sfide smarrite” sarebbe stato valido se fosse sopraggiunto ad altri di sostegno e compiacimento verso il presidente del Consiglio e le sue scelte. Ma l’atteggiamento critico del Corriere della Sera, a parte le cronache politiche quotidiane di Maria Teresa Meli, abitualmente generose nella rappresentazione delle ragioni e degli umori di Renzi, risale almeno al 24 settembre del 2014. Quando l’allora direttore Ferruccio de Bortoli pubblicò un editoriale in cui avvertì un “odore stantio di massoneria” nel famoso patto del Nazareno, che ancora legava il presidente del Consiglio e Silvio Berlusconi con un filo quotidianamente gestito dal toscanissimo Denis Verdini. E mise in guardia Renzi dai pericoli costituiti dal suo stesso carattere e modo di governare.

Il presidente del Consiglio, di cui lo stesso de Bortoli avrebbe poi rivelato l’abitudine di dolersi con messaggini e quant’altro della linea del giornale, non gradì per niente. Il caso, diciamo così, volle che gli editori maturassero dopo quell’editoriale la decisione di un avvicendamento al vertice del Corriere della Sera, intervenuto nella primavera del 2015 con la promozione del vice direttore uscente Luciano Fontana. Che si insediò mentre il suo predecessore dava anche in televisione al presidente del Consiglio del “maleducato di talento”.

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Le prime settimane della nuova direzione del giornale più diffuso d’Italia sembrarono caratterizzate da una maggiore cautela, se non da una vera e propria apertura di credito al governo. Ma, nel contesto peraltro di una situazione progressivamente critica del quotidiano, alle prese con un pesante programma di contenimento dei costi e pre-pensionamenti sottoposto alle faticose procedure e autorizzazioni del caso, le riserve verso l’azione o le scelte legislative del governo tornarono a fare capolino negli editoriali o altri tipi di commento. Sino a quando non arrivò il 12 febbraio scorso il clamoroso annuncio di un ritorno di de Bortoli al Corriere della Sera come editorialista. Un ritorno formalizzato il 21 febbraio, di domenica, con un articolo a dir poco preoccupato sulla quantità ancora esorbitante del debito pubblico italiano, e con la liquidazione a livello di “stupidità” dei tentativi di minimizzare il problema rifacendosi agli aumenti che subivano altri debiti pubblici, tutti comunque di consistenza decisamente inferiore a quello di casa nostra.

Per un’altra, curiosa coincidenza, al ritorno degli editoriali di de Bortoli sul Corriere della Sera seguirono rapidamente due fatti clamorosi. Il primo fu l’annuncio di un accordo sinergico fra La Stampa, il Secolo XIX, la Repubblica e le testate locali del gruppo l’Espresso: un accordo destinato a garantire al nuovo trust una posizione dominante nella stampa quotidiana. Il secondo fatto, collegato al primo, fu l’annuncio dell’uscita della Fiat targata Marchionne dalla combinazione editoriale del giornale milanese di via Solferino. Come se la Fiat, o come diavolo adesso si chiama, avesse voluto prendere nel modo più vistoso possibile le distanze da una linea del Corriere della Sera ormai sistematicamente critica verso il governo.

Tutto questo accadeva mentre nella Repubblica il fondatore Eugenio Scalfari, pur colto di sorpresa e dichiaratamente “infastidito” nei mesi precedenti dalla decisione dell’editore di nominare alla direzione del giornale Mario Calabresi, proveniente dalla Stampa e notoriamente amico di Renzi, riduceva nei suoi appuntamenti domenicali con i lettori l’abituale diffidenza verso il giovane presidente del Consiglio.

Scalfari è arrivato, in particolare, a certificare la conversione improvvisa di Renzi al progetto a lui caro dell’Europa federale e a comprenderne la tendenza al cancellierato, inedito nella storia della democrazia italiana ma giustificato dai tempi nuovi, in cui l’urgenza delle decisioni ormai prevale ovunque su tutto. Per non parlare dell’auspicio espresso domenica scorsa, sempre da Scalfari, in piena sintonia con Renzi, che il referendum del 17 aprile contro le trivelle naufraghi in un “astensionismo di massa”. Un auspicio non condiviso dall’ex direttore Ezio Mauro. Che ha tenuto a precisare, ospite di Lilli Gruber con un supercritico Massimo D’Alema martedì 5 aprile, che lui invece al referendum parteciperà, senza precisare tuttavia se voterà no o sì all’abrogazione delle norme che consentono la proroga delle concessioni sino all’esaurimento dei giacimenti di petrolio o gas. Un no come forse vorrebbe di ripiego l’astensionista Scalfari, e come si è deciso ad annunciare il pur riluttante ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, o un sì conforme a quelli del governatore pugliese Michele Emiliano e dell’ex capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza.

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Più dura comunque si prospetta nel quotidiano fondato da Scalfari, e ora nei giornali che ne costituiscono una specie di costellazione, l’adesione alla linea polemica adottata da Renzi, pur tra qualche frenata o precisazione, nei rapporti con la magistratura.

E’ un terreno, questo delle relazioni fra politica e magistratura, su cui Repubblica ha tenuto abitualmente a sostenere le toghe, spaccandosi fra il direttore dell’epoca, Ezio Mauro, e Scalfari solo in una occasione: quando scoppiò il clamoroso conflitto di competenze, prima sui giornali e poi davanti alla Corte Costituzionale, fra l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, sostenuto a spada tratta dall’amico Eugenio, e la Procura di Palermo. Che aveva intercettato il presidente della Repubblica – quella vera, non di carta – sull’utenza telefonica dell’indagato e poi imputato Nicola Mancino nell’inchiesta sulla presunta trattativa fra lo Stato, o suoi pezzi, e la mafia durante la stagione delle stragi, fra il 1992 e il 1993, ma con effetti anche negli anni successivi.

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