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Tutta la verità sulla tasse che si pagano a Roma e Milano

Francia

Peccato nessuno si prenda la briga di spulciare i documenti ufficiali. Per carità: lettura non agevole. Malloppi di centinaia di pagine. Numeri. Tabelle. Grafici. Litri d’inchiostro in cui affogano le informazioni più sensibili, quando basterebbero poche pagine significative per trasmettere l’essenziale. Una vecchia tecnica, mutuata dalla Ragioneria dello Stato, a sua volta vincolata da leggi, commi e codicilli, successivamente trasfusa nei rami più bassi della pubblica amministrazione. Nel caso in questione stiamo parlando del “Documento unico di programmazione” (DUP) della Città metropolitana di Roma Capitale. Redatto ai sensi del decreto legislativo 118 del 23 giugno 2011: parto della fertile fantasia di un legislatore che aveva tanta nostalgia per i piani quinquennali.

Ben due tomi di quasi 700 pagine. Ad opera della Direzione generale, Servizio Pianificazione e controllo; della Ragioneria Generale e dell’Ufficio statistico. Dove è raccolto tutto lo scibile umano dell’amministrazione capitolina. Ed ecco, allora, che siamo informati di tutto: dagli andamenti demografi, all’economia; dalla struttura industriale a quella del commercio; dalle banche al turismo. E via dicendo. Poteva forse mancare l’appendice: “Il profilo del benessere equo e sostenibile della città metropolitana di Roma Capitale”? Assolutamente no. Una ventina di pagine dense di numeri e tabelle. Tanto per dimostrare che il politically correct è ormai il dogma dal quale non si può prescindere.

Chi fosse dotato di pazienza certosina troverebbe, tuttavia, in quelle migliaia di colonne di piombo, materiale utile per una riflessione in grado di rovesciare un antico luogo comune. Quello di una città indolente. Abitata da cittadini che vivono alla giornata, in genere a ricasco dei più solerti cugini del Nord. Tra feste in terrazza e musiche stucchevoli. La “Grande Bellezza” appunto. Ebbene una Roma del genere semplicemente non esiste. O meglio esiste in alcuni luoghi. Riguarda alcuni ceti ed ambiti ristretti: quelli presi a bersaglio da tante commedie all’italiana. Alberto Sordi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Carlo Verdone, o Enrico Brignano. Ma già in Marcello Mastroianni il discorso era diverso: più attento alla complessità di una situazione che rifletteva non solo il localismo, ma i caratteri inquietanti di una modernità ferita. Questi archetipi hanno trasmesso un’immagine che non corrisponde al carattere più profondo della generalità degli abitanti di Roma. Gente che lavora, anche duramente. Non sono ovviamente santi. Ma in quale altra città italiana sono prevalenti? È solo gente normale. Che non abbassa la media della moralità nazionale.

Sono i dati a rendere evidente questo profilo, in un comparto pesante, come può essere quello della tassazione. Che i romani siano costretti a subire un prelievo maggiore è cosa nota. L’addizionale comunale e regionale è la più alta d’Italia, come pure le TARI: per lo smaltimento dei rifiuti. Ma ciò che finora è rimasto in ombra è un aspetto ancor più rilevante: che riguarda l’imposizione diretta stabilita dalle leggi nazionali. Qui le parole del DUP sono illuminanti. “Nella comparazione tra i contribuenti residenti nelle 10 città metropolitane – si legge a pagina 118 – si osserva quanto segue: “area romana” Roma – grassetto nel testo – si situa al 1° posto per numero di contribuenti (2,7 milioni) rilevandosi così come quella con la più ampia platea di contribuenti del Paese e precedendo quella di Milano (2,3 milioni di contribuenti) che si posiziona al 2° posto; conseguentemente la provincia di Roma si colloca anche al 1° posto per quanto riguarda il valore dell’imponibile complessivo prodotto (66,4 miliardi di euro) precedendo quella di Milano (61,1 miliardi di euro) che si situa al 2° posto. Nettamente distanziate risultano le altre provincie”.

E la città di Roma? Le specifiche sono fornite subito dopo. Rispetto alla provincia “i contribuenti residenti nel comune di Roma rappresentano il 68% dei contribuenti residenti nella provincia e producono ben il 74% del reddito imponibile provinciale.” Che ammonta a 66,4 miliardi. Quello di competenza della sola Roma è pertanto pari a 49,1 miliardi. Questa è la base su cui si applicano le aliquote nazionali ai fini del pagamento delle imposte. Aliquote che sono progressive: ossia crescono al crescere del reddito imponibile pro-capite. Quello medio, a livello nazionale, è stato pari, nel 2012, a 22.511 euro pro-capite. Quello dei romani è risultato leggermente più alto, pari a 26.215. Con una differenza di oltre il 16 per cento.

Trasportiamo questi dati locali sul piano nazionale. I contribuenti romani sono pari al 4,6 % del totale. Ma il loro contributo all’imponibile nazionale è più alto: il 4,9 per cento. Sono di conseguenza soggetti ad un’aliquota più elevata. Si può stimare, con le opportune proporzioni che, alla fine, il prelievo fiscale effettivo sarà pari al 5,7 per cento del totale. Nell’anno considerato il Tesoro ha incassato dall’Irpef 165,6 miliardi di euro. i Romani vi hanno contribuito per oltre 9,5 miliardi. Se il carico fiscale fosse stato uniforme – tante teste un identico prelievo individuale – ci saremmo trovati di fronte ad una cifra ben minore: pari a 7,7 miliardi. La relativa differenza – circa 1,8 miliardi – altro non è che il surplus che i romani cedono allo Stato centrale. Ma non basta. A questa cifra è necessario aggiungere altri 800 milioni circa della maggiore tassazione locale. Per un totale complessivo di oltre 2,5 miliardi. Come si dice in gergo: i romani sono contribuenti netti a favore dello Stato centrale. Qualcosa di simile ai rapporti tra l’Italia e l’Europa. Paghiamo tanto e riceviamo meno.

Si giustificano queste cifre con lo stereotipo di “Roma ladrona”? È difficile dimostrarlo. Ancor meno se estendiamo il paragone con le altre capitali europee. Lasciamo perdere Londra, Parigi o Berlino. Un’altra dimensione. I veri marziani: altro che Ignazio Marino. Confrontiamoci con un Paese che sta leggermente peggio di noi come la Spagna. Un reddito complessivo e pro-capite minore. Un tasso di disoccupazione che è quasi il doppio di quello italiano. Da anni sottoposto a “procedura d’infrazione” da parte della Commissione europea, per l’eccesso di deficit. Banche salvate dall’intervento dello Stato, anche grazie al nostro contributo, con la partecipazione al “Fondo salva Stati”. Ebbene lo sviluppo di Madrid – 294 km di metropolitana contro i 60 di Roma – è finanziato dalle risorse dei madrileni che trattengono oltre il 50 per cento dell’Irpef e degli incassi per l’IVA. Oltre ad imposte minori, ma più o meno nella stessa percentuale.

Se questa regola fosse applicata alla Capitale d’Italia, altro che i 110 milioni che lo Stato italiano corrisponderà (forse) nel 2016. Quell’elemosina che fa storcere il naso a tanti nordisti. Le risorse a disposizione dei romani sarebbero cento volte tanto. E stiamo parlando solo dell’Irpef. Se vi aggiungessimo anche l’Iva, come teorizzava la “Lega” di Bossi nel suo disegno sul “federalismo” – lasciamola in prevalenza al territorio che la produce – saremmo dei piccoli cresi. Che vi sia qualcosa di patologico nel rapporto tra lo Stato centrale e la sua Capitale è, quindi, evidente. Risparmiateci allora sermoni non richiesti. Il mantenimento della Capitale d’Italia – uscite per quasi 6,4 miliardi, tutto compreso, nel bilancio 2016 – non solo grava interamente sulle spalle dei romani. Ma sono sempre questi ultimi a svenarsi: per fornire un contributo di oltre 3 miliardi alle esangui casse del Tesoro



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