Non è suonato esattamente come musica alle orecchie di Matteo Renzi quel no alla riforma costituzionale di Alfio Marchini, annunciato lunedì sera 16 maggio in tv a Lilli Gruber su La 7. Un no motivato dal fatto che il candidato sindaco di Roma, con una lista civica appoggiata da Forza Italia e da formazioni centriste, ritiene che “le riforme vanno fatte insieme” e per questo “ci vuole una Costituente“.
Un no che non sarebbe stato esattamente motivato almeno con gli stessi toni da Matteo Salvini e neppure da Giorgia Meloni. Ma forse neppure da un esponente della minoranza anti-renziana del Pd, con l’eccezione magari del colto e agguerrito Gianni Cuperlo. E pensare che lMarchini lo abbia fatto per obbedire a Silvio Berlusconi, il leader politico dal quale si è “sentito più libero” (ha detto) sarebbe fare un torto alla sua storia familiare, personale e politica nell’impegno per Roma.
È il no di un moderato – pronunciato con un garbato sorriso sulla bocca – che anche essendo in campagna elettorale deve conquistare i voti degli elettori azzurri e rimotivare i moderati rimasti a casa. Non è un no da urlatore come anche nella stessa Forza Italia accade. E proprio per questo rischia di essere ancora più simbolicamente insidioso per il premier. Tanto più se Marchini, appoggiato anche da Ncd, diventasse il sindaco di Roma. E se la stessa cosa accadesse a Milano anche con l’altro moderato di centrodestra, candidato a Palazzo Marino, Stefano Parisi? I problemi per il premier aumenterebbero.
Dopo aver incassato già tanti si dall’establishment economico, culturale e editoriale (oggi quello di Giovanni Bazoli con l’intervista a Repubblica), Renzi troverebbe sul fronte del no anche una borghesia imprenditoriale moderata. E non solo la “santa” alleanza protestataria di Lega, Cinque Stelle e, se deciderà di farlo, la minoranza interna dem. Oltre alla sinistra radicale. Vincenti o no, Marchini e Parisi sembrano già figure salite nell’olimpo dei papabili nuovi leader di quei moderati che il Cav, stando alle sue parole, sembra tanto agognare.
Sul fatto che le riforme vadano fatte e soprattutto da qualche parte bisogna iniziare (plebiscito o meno sulla sua persona) Renzi ha indubbiamente ragione. Ma per il premier quel no garbato e moderato di Marchini, con relativo riposizionamento di Fi o di una parte importante di essa su un fronte anti-salviniano e non solo a Roma, rischia di essere ora più preoccupante di quello dei tanti urlatori dell’antirenzismo a prescindere, che stanno preparando la loro rivoluzione d’ottobre.